Un dibattito eterno delle nostre società tocca il rapporto tra tecnica e politica: l’equilibrio tra competenza e consenso nelle decisioni e nell’organizzazione del potere. È un tema che, in particolare negli ultimi tre anni, ha suscitato una pluralità di riflessioni, spesso legate alla modalità con cui alcune categorie sono portate all’attenzione di un vasto pubblico sulla base delle esigenze di cronaca, secondo un ciclo collaudato. Si provvede alla loro ostensione quali “esperti” di turno. A essi si chiede che la loro competenza si estenda enciclopedicamente a molte altre aree dello scibile. È sovente richiesta anche la loro opinione sull’evoluzione politica, nonché sulla vita interna dei partiti, come se avesse un particolare valore. All’improvviso, la bolla dell’interesse si sgonfia, ci si dimentica di una categoria di esperti e si passa alla prossima.

Aiuta a vedere questo tema più in profondità un libro del giurista Natalino Irti apparso per Aragno nel 2014 con un titolo delizioso, Del salire in politica. Il problema tecnocrazia. Il titolo evoca in me, come nella maggior parte degli italiani, l’immagine di Mario Monti che prende in mano un cagnolino, ma essa è prontamente sostituita da Grattacieli e tunnel di Fortunato Depero, che apre le riflessioni di Irti per la tavola rotonda sulla tecnocrazia negli anni Trenta a Palazzo Strozzi a gennaio 2013 con Guido Rossi ed Emanuele Severino, organizzata dalla Fondazione dedicata ad Alberto Predieri.

L’umano superfluo

Irti cita quell’opera di Depero e la tela Industria di Ruggero Alfredo Michahelles (Ram) per commentare i loro paesaggi perfettamente funzionali, ma dove non si scorgono gli uomini, dove la presenza umana non conta più. Non compaiono né i capitalisti, né i gestori, né i lavoratori. In quel ritratto della civiltà delle macchine degli anni Trenta, l’essere umano è superfluo. Nel trionfo dell’automazione di un secolo fa, la macchina può già restare da sola.

Agli uomini resta il compito di contemplarla, se potranno dedicarsi all’arte riducendo lo spazio del lavoro, come scriveva Keynes negli stessi anni Trenta nel suo discorso sulle prospettive economiche del futuro.

Il dibattito di quei decenni è segnato dal problema del rapporto tra potere e competenza, tra potere politico e potere tecnico. Il tecnico dell’epoca è la figura che possiede un sapere utile per risolvere i problemi, per rispondere a esigenze specifiche. Nel dibattito statunitense e tedesco, egli è anzitutto l’ingegnere. Che conosce una trasformazione nella figura del manager, e poi quella in cui viviamo ancora oggi con la proliferazione della figura del consulente, la cui funzione è far credere che gli altri non sappiano risolvere i problemi che lui stesso non risolve.  

Unità tecnocratica

Il contesto del fascismo, come ricorda Irti, è differente rispetto alle elaborazioni teoriche degli Stati Uniti e della Germania. La competenza fascista si vuole parte di una collettività organica. Ciò genera una ricerca spasmodica dell’elemento unificante nelle varie specializzazioni tecniche. Ugo Spirito nel 1934 propone di affiancare all’aristocrazia e alla democrazia un «regime gerarchico» in cui, per mantenere l’istanza collettivista e cercare l’efficacia, «governano tutti, ma i migliori di più e i peggiori di meno, ciascuno a seconda della sua capacità e nella sua sfera, strettamente collegata a tutte le altre nell’unico organismo».

A Spirito può essere rivolta una domanda mai sopita: chi sarebbero i “migliori” e come si delimitano le varie “sfere”? Il filosofo italiano cerca di ricomporre il frazionamento della tecnica in un impulso unificante, un “piano” che richiede la collaborazione di tutti. Una volta che c’è il piano, «la democrazia è finita», perché il consenso organico dei “migliori” supera e sostituisce i conflitti. Il pensiero tecnocratico di Spirito, in questo modo, costruisce uno spazio in cui le varie funzioni specialistiche sono ricondotte a unità: anche senza il richiamo alla volontà popolare, serve comunque avere un riferimento, che in questo caso è il piano.

Eppure, lo stesso piano non è un’entità astratta: bisogna chiedersi come viene scritto, come vada organizzato, quale equilibrio tra le varie discipline ed esigenze esso debba esprimere. Come diventa “organico”? Di nuovo: chi decide su questo, e sulla base di quali categorie? Anche alcune riflessioni di Kelsen, come nota Irti, ritornano sul problema di individuare la competenza superiore, in grado di risolvere i conflitti: il pericoloso comando di un capo, l’autorità dell’oligarchia che si proclama “migliore” o la decisione generale affidata agli elettori. Tutta la controversia sulla competenza porta quindi al problema dello scopo, al luogo dove le diverse competenze dovrebbero indirizzarsi, trovando un accordo.

Siccome lo scopo definitivo non si scorge, allora il dilemma delle competenze non può essere mai sciolto. Se non in termini negativi, come nell’ironia di Croce sui tecnici come «medici consultori» che non possono permettersi di «dettare ricette, perché sono impegnati come forze vitali tra quelle forze vitali, pari in ciò agli altri uomini tutti».

Il recinto

Il problema si pone in modo particolare per il sapere specialistico del tecnico che è coinvolto nella cosa pubblica, che «sta nel recinto del potere politico, ma non è politico», come scrive Irti. Lo scopo di questi tecnici è servire il potere, portando all’attenzione del politico i temi su cui effettuare le decisioni e le modalità per affrontarle. Il tecnico, in questo modo, effettua una scelta (per esempio sulle priorità da presentare al decisore), ma ciò che gli è proprio è lasciare spazio e non invadere lo spazio altrui.

Irti conclude il suo grande commento all’età tecnocratica riportando lo sguardo del lettore sulle opere di Fortunato Depero e di Ruggero Alfredo Michahelles. Tutto in quelle opere sembra funzionare senza sbavature, ammesso e non concesso che le macchine siano in grado di manutenersi, di ripararsi, o di riconoscere il momento in cui emerge un errore nei loro ingranaggi per agire di conseguenza. Il giurista, davanti a queste prospettive, ci domanda: chi ha deciso di costruire i grattacieli, i tunnel, le industrie, gli ingranaggi? Per quali scopi quegli edifici esistono?

E si potrebbe aggiungere: in che modo si potrà imparare davanti agli imprevisti, fare fronte a una realtà che il mero funzionamento delle cose non è in grado di prevedere? Chi dovrà intervenire, in tale caso, e perché? Per queste domande – e molte altre – sono possibili solo risposte in cui o la tecnica sconfina nella politica, e quindi deborda, o in cui tecnica e politica si mettono in questione reciprocamente, ognuna cosciente dei propri limiti. Quale categoria può aiutare a leggere questa relazione?  

La vitalità delle istituzioni

Un aiuto viene, sul tema, dalla raccolta di scritti sui vent’anni di presidenza di Natalino Irti dell’Istituto Italiano per gli Studi Storici, fondato e voluto da Benedetto Croce e Raffaele Mattioli. Qui il giurista riprende un concetto degli ultimi scritti del filosofo di Pescasseroli, la vitalità, attraverso una magistrale discussione della storia del termine nel diritto civile in Italia. All’inizio del Novecento, in Italia il concetto di vitalità ha una notevole storia giuridica, che si affievolisce dopo il Codice del 1942. Ma il termine continua ad affascinare e ad avere un rilievo.

Per la capacità giuridica – ricorda Irti in un’ampia riflessione – oggi basta vivere; si può discutere l’inizio della vita, ma non la vitalità, la capacità di operare. Ma la discussione sulla vitalità può essere allargata anche alle istituzioni e alle loro prospettive, proprio per quanto riguarda il rapporto tra tecnica e politica, tra il gioco di competenze mai statiche e la necessità di decisioni. In questo senso, proprio la costante e reciproca delimitazione dei confini tra tecnica e politica porta vitalità in “edifici” che sono sempre più accurati e avanzati, come nei quadri commentati da Irti, ma allo stesso tempo popolati da uomini, con le loro aspettative e le loro contraddizioni.

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