Urne aperte in tutta Italia domenica 8 e lunedì 9 giugno per i cinque referendum su lavoro e cittadinanza. Abbiamo raccolto in questa pagina le ragioni per votare cinque sì. Qui invece trovate le schede che spiegano nel dettaglio cosa avviene se i sì prevalgono e soprattutto se il quorum supera la soglia del 50% degli aventi diritto.

1 – licenziamenti illegittimi, un colpo di spugna su regole sbagliate

di Vittorio Malagutti

Un salutare colpo di spugna su regole inique e sbagliate introdotte dal Jobs Act. È questo l’obiettivo del primo dei cinque quesiti referendari. La materia è tecnica, si sa. Ed è anche molto complessa, perché in Italia la stratificazione di leggi, leggine e decreti in materia di lavoro (senza contare le molteplici pronunce dei giudici fino alla Corte costituzionale) ha creato un intreccio di regole spesso difficili da applicare.

Con il risultato, tra l’altro, che in molti casi appare complicato individuare la ratio delle norme, lo scopo ultimo perseguito dai governi che di volta in volta hanno cambiato le carte in tavola. Ecco, allora, che va colta l’occasione, offerta dai referendum, di metter mano alla riforma renziana del 2015, quantomeno per eliminare disparità poco giustificabili tra lavoratori dipendenti.

Con le norme ora in vigore, per esempio, la tutela garantita dalla legge ai lavoratori cambia in base alla data di assunzione. In pratica, in caso di licenziamento collettivo in un’azienda con più di 15 dipendenti, risulta penalizzato chi è stato assunto dopo il 2015, l’anno del Jobs Act, rispetto ai colleghi della stessa azienda con maggiore anzianità di servizio.

Con la vittoria dei promotori del referendum sul primo quesito si tornerebbe quindi a quanto previsto dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, che è stato in parte modificato dalla legge Fornero del 2012.

Uguali tutele, quindi, per tutti i lavoratori quando vengono colpiti da un licenziamento giudicato illegittimo dal giudice, allargando la platea di chi può sperare nel reintegro nel posto di lavoro. È un piccolo passo avanti, certo, ma è un passo nella direzione giusta. 

2 – Più tutele a chi lavora nelle piccole imprese

di Roberto Antonio Romano e Anna Maria Variato

Il quesito numero due intende eliminare il tetto massimo dell’indennizzo per consentire al giudice di determinarne l’entità in modo discrezionale senza vincoli economici, ma valutando di volta in volta tutte le circostanze del licenziamento.

Ciò non elimina comunque la disparità di trattamento con i dipendenti delle grandi aziende (le piccole imprese continueranno a restare escluse dall’applicazione dell’articolo 18), ma aumenta la discrezionalità della magistratura in caso di contenzioso. Si tratta di un presupposto minimo per soddisfare gli standard dell’Organizzazione internazionale del lavoro a cui gli stati aderenti dovrebbero conformarsi: stabilità del posto di lavoro, nessuna discriminazione, salari dignitosi, sicurezza e igiene, libertà sindacali e contrattazione collettiva.

Servono politiche in grado di coniugare capitale, Stato e lavoro, con un modello normativo che leghi equità, coesione e i diritti di seconda generazione. In questo quadro solo un diritto diseguale può bilanciare il potere del lavoro e quello del capitale.

I “poteri ignoranti” oggi paralizzano il cambiamento, ma l’aggiornamento dei diritti di II generazione (legati alla condizione lavorativa) testimonia la consapevolezza che il mercato da solo non può regolare tutti i fenomeni sociali. Qualora raggiunto l’obiettivo referendario, sarebbe cruciale ridurre la frammentazione contrattuale, creando aggregazioni significative capaci di restituire forza e rappresentanza al lavoro e al sindacato.

3 – “Vedere lontano” oltre il precariato

di Rita Plantera

Non è una crociata “operaia” contro le aziende, come vuol far credere un dibattito pubblico e politico viziato da una logica divisiva e antagonista. Bensì l’opportunità, soprattutto per le nuove generazioni, di guardare avanti e «vedere lontano», per dirla con le parole di Piero Calamandrei durante l’Assemblea costituente. Verso un cambio di passo significativo nelle attuali politiche del lavoro, oltre ogni logica propagandistica ed elettorale. L’abrogazione delle normative in vigore aprirebbe una breccia nel sistema precariato e spingerebbe verso un modello sociale incentrato sulla stabilità anziché sull’incertezza lavorativa ed esistenziale.

Attraverso la rimozione degli ostacoli che rendono le aziende meno competitive e i lavoratori più precari. L’uso esteso e l’abuso dei contratti senza «causale» hanno indebolito il rapporto tra impresa e lavoratore e creato le condizioni per cui, anziché stabilizzare i dipendenti dopo dodici o ventiquattro mesi, le aziende scelgono di sostituirli con altri lavoratori, in un veloce turnover. Se vince il Sì, l’introduzione delle causali anche per i contratti inferiori ai 12 mesi arginerebbe il ricorso a cascata ai contratti a termine, limitandoli ai casi strettamente necessari.

Mettendo un freno significativo alla mania ipertrofica con cui le aziende assumono per brevi periodi invece di investire a lungo termine sulla forza lavoro. Romperebbe insomma un automatismo usa-e-getta che rende estremamente difficile per chiunque pianificare scelte di vita e di carriera.

4 – Più sicurezza sul lavoro

di Vittorio Malagutti

Nei primi tre mesi del 2025, l’ultimo periodo per cui sono disponibili dati ufficiali, in Italia sono morte sul lavoro 205 persone, l’8 per cento in più rispetto a un anno prima. Le statistiche ci dicono che, nell’arco dell’ultimo decennio, infortuni e decessi sono in lenta diminuzione, ma le dimensioni di quella che appare comunque come una strage giustificano ogni intervento legislativo per garantire maggior sicurezza sul lavoro.

A patto, ovviamente, che questi interventi siano efficaci. E questo sembra il caso di quanto previsto dal quarto quesito referendario, che amplia le responsabilità che gravano sul committente in caso di infortuni di lavoratori dipendenti di imprese appaltatrici o subappaltatrici. Con la legge vigente, il committente non può essere chiamato in causa se la sua attività è totalmente estranea a quelle dell’azienda a cui ha affidato una specifica commessa. Se vincesse il Sì, questa eccezione verrebbe abolita. In molti casi, infatti, l’impresa appaltatrice ha dimensioni tali da non essere in grado di risarcire il lavoratore o i suoi famigliari.

E questo perché nella selezione dell’appaltatore il committente punta soprattutto a ridurre i costi. Se le conseguenze di un possibile infortunio possono ricadere anche sull’azienda che si trova in cima alla filiera delle commesse, allora aumentano le probabilità che quest’ultima sia più accurata nella scelta dell’appaltatore, rivolgendosi a imprese più grandi e qualificate. E l’effetto finale sarà quello di garantire più sicurezza ai lavoratori, diminuendo i rischi, così come infortuni e morti.

5 – Cittadinanza, credere in una società più giusta

di Giorgia Serughetti

Vuoi vivere in un paese aperto al futuro, o in uno rinserrato nella difesa del passato? In uno che renda concreta la promessa democratica di uguaglianza, o in uno determinato a conservare gerarchie di privilegio? Potrebbe essere formulato anche così il quinto quesito dei referendum abrogativi dell’8 e 9 giugno, quello che propone di dimezzare da dieci a cinque anni il periodo di residenza richiesto alle persone straniere extra Ue per ottenere la cittadinanza italiana.

La cittadinanza è nata, nella modernità, come dispositivo di appartenenza, necessario a garantire integrazione politica nei grandi stati territoriali. Il filosofo Richard Bellamy la definisce come «appartenenza a una comunità politica dove tutti i cittadini possono determinare le condizioni della cooperazione sociale su una base di eguaglianza attraverso la partecipazione».

Perché da questa condizione di uguaglianza fondamentale, che definisce diritti e doveri, dovrebbero essere escluse, o incluse dopo un iter troppo lungo nel tempo di una vita, le persone che già appartengono de facto alla comunità e solo per casualità di nascita ne sono escluse de iure? Persone che investono in Italia la loro speranza, che portano il nuovo in un paese che questo governo sta trasformando in grottesco santuario dell’“italianità” del passato.

Votare Sì significa dare a noi tutte e tutti una chance di superare l’immobilismo della politica, il ripiegamento nostalgico della cultura, la paura del futuro che mortifica il desiderio di cambiamento. Significa credere in una società più giusta, da costruire. 

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