Il Jobs act, la riforma del lavoro del governo Renzi, compie dieci anni. Nell’incertezza di ricevere dai lavoratori il lasciapassare per il futuro. Con il referendum dell’8 e 9 giugno si saprà se sarà semaforo verde o rosso sulle norme che hanno liberalizzato i contratti a termine.

Dei quattro quesiti referendari a tema lavoro (il quinto è sulla cittadinanza), il terzo, su scheda grigia, riguarda la disciplina dei contratti a tempo determinato e chiede l’abrogazione, cioè l’annullamento, delle norme del Jobs act che consentono al datore di lavoro di assumere lavoratori fino a dodici mesi senza «causale», senza cioè specificare il motivo per cui a un contratto a tempo indeterminato si preferisce uno a termine, i contratti che tecnicamente vengono denominati “acausali”, perché non prevedono la causale. E delle norme che permettono di individuare causali in ambito aziendale, fuori dalla contrattazione collettiva, per i contratti di durata superiore.

L’indicazione della causale è importante perché permette al lavoratore di contestare la validità del contratto e richiedere al giudice di convertirlo in un contratto a tempo indeterminato se la causale non è valida o sufficiente a giustificare la scelta del datore di lavoro.

Attualmente, con le norme in vigore, i datori di lavoro possono stipulare contratti a tempo determinato e di prorogarli o rinnovarli fino a dodici mesi senza dover specificare una ragione giustificativa. La causale è richiesta solo se i contratti superano i dodici mesi e fino al limite massimo di durata di ventiquattro mesi.

Per i contratti inferiori ai dodici mesi l’azienda non è obbligata a spiegare chiaramente perché sceglie di assumere il lavoratore con un contratto a tempo determinato anziché a tempo indeterminato. Ne consegue che in assenza di un motivo specifico a giustificazione del contratto a termine, il giudice non può essere chiamato a sindacare la scelta del datore di lavoro ritenuta non valida.

Jobs act, decreto Dignità e decreto Lavoro e causali

Dopo il Jobs act altri due decreti, il decreto Dignità del governo Conte e il decreto Lavoro dell’esecutivo Meloni sono intervenuti sui contratti a termine.

La principale differenza tra i tre decreti riguarda le causali per i contratti a termine più lunghi di dodici mesi. Perché per i contratti fino a dodici mesi tanto il decreto Dignità quanto il decreto Lavoro non prevedono causali, lasciando invariata la norma del Jobs act.

Le causali per un contratto a tempo determinato sono giustificazioni specifiche che spiegano perché un’azienda non può assumere un lavoratore a tempo indeterminato, ma solo a termine. Sono necessarie per contratti superiori a dodici mesi o per rinnovi di contratti, entro i ventiquattro mesi totali.

In sostanza, il Jobs Act elimina l’obbligo di indicare una causale per i contratti a termine. Il decreto Dignità, governo Conte, lo reintroduce per i contratti superiori a dodici mesi. Il decreto Lavoro del governo Meloni introduce tra le novità la possibilità per le parti, cioè imprese e lavoratori, di individuare causali aziendali, se non previste dai contratti collettivi, per specifiche esigenze di natura tecnica, organizzativa e produttiva.

Le causali aziendali tirano in ballo soprattutto le piccole e micro imprese che spesso non applicano contratti collettivi o preferiscono quelli pirata e i cui lavoratori non hanno una rappresentanza sindacale. Aprendo così la strada a un uso più massiccio di contratti acausali.

Il quesito

«Volete voi l’abrogazione dell’articolo 19 del d.lgs. 15 giugno 2015, n. 81 recante “Disciplina organica dei contratti di lavoro e revisione della normativa in tema di mansioni, a norma dell’articolo 1, comma 7, della legge 10 dicembre 2014, n. 183”, comma 1, limitatamente alle parole “non superiore a dodici mesi. Il contratto può avere una durata superiore, ma comunque”, alle parole “in presenza di almeno una delle seguenti condizioni”, alle parole “in assenza delle previsioni di cui alla lettera a), nei contratti collettivi applicati in azienda, e comunque entro il 31 dicembre 2025, per esigenze di natura tecnica, organizzativa e produttiva individuate dalle parti;” e alle parole “b bis)”; comma 1 -bis, limitatamente alle parole “di durata superiore a dodici mesi” e alle parole “dalla data di superamento del termine di dodici mesi”; comma 4, limitatamente alle parole “,in caso di rinnovo,” e alle parole “solo quando il termine complessivo eccede i dodici mesi”; articolo 21, comma 01, limitatamente alle parole “liberamente nei primi dodici mesi e, successivamente,”?»

L’articolo 19 commi 1, 1 bis e 4 e l’articolo 21 comma 1 del decreto legislativo 15 giugno 2015 n. 81 del Jobs act agevolano la possibilità di stipulare contratti a termine nei primi dodici mesi dall’assunzione senza dover specificare le causali della scelta. E aprono la strada alle causali aziendali.

Se vince il sì

Con l’approvazione del quesito tre, il referendum mira a reintrodurre l’obbligo di motivazione per tutti i contratti a termine, anche per durate inferiori ai dodici mesi, e il riferimento soltanto alle causali previste dalla legge o dai contratti collettivi e non a quelle previste dalle aziende.

In altre parole, se vince il sì, torna l’obbligo per le aziende di indicare nel contratto le ragioni della durata a termine piuttosto che a tempo indeterminato in riferimento a quelle stabilite dalla contrattazione nazionale.

Si tratta di una misura anti-precariato, a tutela e garanzia del dipendente, perché arginerebbe il ricorso sistematico ai contratti a termine senza giustificazione.

Le ragioni del sì

Secondo la Fondazione Di Vittorio della Cgil, il Jobs Act ha portato, nel complesso, a un indebolimento delle tutele e delle condizioni di lavoro per lavoratori e lavoratrici. «I contratti a termine e part time riguardano stabilmente ormai quasi il 30 per cento degli occupati e colpiscono in modo particolare i giovani, le donne e i laureati: la precarietà è diventata un elemento strutturale del lavoro in Italia. L’aumento del numero di occupati si accompagna alla più lenta crescita delle ore lavorate totali, data l’espansione del lavoro part time. La domanda di lavoro si concentra nei settori dei servizi a bassa qualificazione, con un modesto livello tecnologico e bassi salari. In termini reali, i salari italiani hanno registrato una caduta senza precedenti».

A partire dall’introduzione del Jobs Act emerge una chiara divergenza tra le tipologie contrattuali: «A partire dal 2016 si amplia notevolmente il numero di contratti a tempo determinato e parasubordinati (apprendistato, stagionali, somministrazione ed intermittenti). I valori assoluti sono impressionanti: nel 2024 sono stati 3 milioni e 700mila i contratti a tempo determinato e 3 milioni e 100mila i contratti parasubordinati» su un totale delle persone dipendenti a tempo determinato di 2 milioni e 800mila, sostiene la fondazione.

«Gran parte dei contratti è quindi per periodi inferiori all’anno, con un’elevatissima frammentazione delle posizioni lavorative».

Le ragioni del no

Tra i sostenitori del no c’è invece la Cisl. «Abbiamo analizzato nel merito i contenuti del referendum, lavoristici in modo particolare, e abbiamo valutato che l'utilizzo di questo strumento sia assolutamente sbagliato su queste materie», ha detto la segretaria generale Cisl, Daniela Fumarola, a margine del XIV congresso della Cisl Friuli-Venezia Giulia.

«Il problema del lavoro c'è, ma va affrontato con la contrattazione e con il confronto. Noi pensiamo che andare avanti guardando nello specchietto retrovisore sia assolutamente sbagliato, pensiamo che alcuni di questi quesiti portino indietro le tutele dei lavoratori, pensiamo che questo strumento sia inadeguato in questa fattispecie», ha precisato Fumarola.

I partiti

La partita fra maggioranza e opposizione si gioca sul quorum. Mentre il centrodestra invita a disertare le urne, le opposizioni stanno portando avanti una campagna a sostegno dell’affluenza. Sul quorum però, la segretaria del Pd Elly Schlein ci spera: «Spero che l’Italia ci sorprenda con un’ondata di partecipazione. Gli italiani hanno una grande e straordinaria occasione per andare a votare e costruire un futuro migliore. E sono convinta che lo faranno».

Intervistata a Cinque minuti su Rai 1, sulle perplessità interne al suo partito: «La linea del Partito democratico sui referendum è molto chiara perché è stata approvata in direzione nazionale senza voti contrari». «Io non ho chiesto abiure a nessuno – ha aggiunto – certo è un voto che non guarda al passato, guarda al presente e al futuro di tanti giovani precariche hanno un contratto di un mese e non sanno se ce l’avranno il giorno dopo e non riescono a uscire di casa a costruirsi una famiglia».

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