Il quesito punta a ripristinare la reintegra sul lavoro nei casi di licenziamento illegittimo. La Cgil chiede il ritorno all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. La vittoria dei sì segnerebbe il ritorno alla legge Fornero, ma per i dipendenti sarebbe sempre meglio che la legge di Renzi
Fra i cinque quesiti al voto l’8 e il 9 giugno, il primo è quello più discusso, più combattuto, più tormentato, in primis proprio nella stessa sinistra che ha promosso i referendum. Il quesito numero 1 propone di cancellare il Jobs act, la legge-manifesto del governo di Matteo Renzi che nel 2015 – a sorpresa, dopo aver negato molte volte un intervento sul tema – ha spazzato via l’articolo 18 della legge 300 del 1978, ovvero dello Statuto dei lavoratori.
Il cosiddetto Jobs act fu poi completato con altri provvedimenti nel 2016. Ha cancellato uno storico caposaldo del diritto del lavoro: il reintegro nel posto di lavoro in caso di licenziamento arbitrario. Il nuovo «contratto a tutele crescenti» prevede infatti la possibilità da parte dell’azienda – purché abbia un numero uguale o superiore ai 15 dipendenti – di licenziare un lavoratore senza motivo fondato, tecnicamente “giusta causa”.
La reintegrazione nel posto di lavoro viene limitata ad alcuni casi. In tutti gli altri si ha il diritto a ottenere una indennità a titolo di risarcimento. Il nome della legge è ispirato a un provvedimento dell’amministrazione Obama negli Stati Uniti d’America nel 2012. Che però con il Jobs Act di Renzi non c’entra un granché. Il Jumpstart Our Business Startups Act aveva l’obiettivo di facilitare il finanziamento delle piccole imprese.
Scheda verde
Quella per l’abrogazione del Jobs act è la scheda verde, la scheda numero uno che viene consegnate ai seggi. Il titolo del quesito che vi si trova stampigliato già dichiara la complessità della materia: «Contratto di lavoro a tutele crescenti — Disciplina dei licenziamenti illegittimi: Abrogazione». Il testo: «Volete voi l’abrogazione del d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23, come modificato dal d.l. 12 luglio 2018, n. 87, convertito con modificazioni dalla L. 9 agosto 2018, n. 96, dalla sentenza della Corte costituzionale 26 settembre 2018, n. 194, dalla legge 30 dicembre 2018, n. 145; dal d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14, dal d.l. 8 aprile 2020, n. 23, convertito con modificazioni dalla L. 5 giugno 2020, n. 40; dalla sentenza della Corte costituzionale 24 giugno 2020, n. 150; dal d.l. 24 agosto 2021, n. 118, convertito con modificazioni dalla L. 21 ottobre 2021, n. 147; dal d.l. 30 aprile 2022, n. 36, convertito con modificazioni dalla L. 29 giugno 2022, n. 79 (in G.U. 29/06/2022, n. 150); dalla sentenza della Corte costituzionale 23 gennaio 2024, n. 22; dalla sentenza della Corte costituzionale del 4 giugno 2024, n. 128, recante “Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183” nella sua interezza?».
Stop ai licenziamenti illegittimi
Che cosa vuol dire il quesito? Nella sostanza, vuol dire «stop ai licenziamenti illegittimi». Perché nelle imprese con più di 15 dipendenti, le lavoratrici e i lavoratori assunti dal 7 marzo 2015 in avanti non possono rientrare nel loro posto di lavoro dopo un licenziamento illegittimo.
Secondo la Cgil, a ora sono oltre 3 milioni e 700mila le lavoratrici e i lavoratori penalizzati da questa legge. Per questo il sindacato invita ad abrogare questa norma: «Diamo uno stop ai licenziamenti privi di giusta causa o giustificato motivo».
Ad alto tasso politico
Al quesito è contrario il padre della legge, Matteo Renzi – allora presidente del Consiglio e segretario del Pd e oggi presidente di Italia viva – e molti di quelli che, nel Pd, allora sostennero la legge e il premier. Lo stesso fondatore di Italia viva in questi giorni ripete: «Considero un errore politico attaccare il governo Renzi e non il governo Meloni. Intanto perché il Jobs act è un provvedimento scritto da gente cresciuta nel Pci prima e nel Pds poi: Padoan, De Vincenti, Paoletti, Bellanova, Nannicini. Fossi Landini e Schlein e mi occuperei delle leggi di Lollobrigida e Salvini, non di quelle dei riformisti. Ma al di là di tutto, l’errore è dividersi sul passato».
Elly Schlein, la segretaria del Pd, sul punto risponde: quello contro il Jobs act «è un voto che non guarda al passato ma guarda al presente e al futuro di tanti giovani precari che hanno un contratto di un mese, non sanno se ce lo avranno il giorno dopo e non riescono a uscire di casa per costruirsi una famiglia», «ma è anche un voto che consente di riparare a degli errori che la nostra parte (il Pd, ndr) ha fatto in passato». Lo scontro fra fautori del Sì e del No, ad alto tasso politico e simbolico, si gioca però su questioni molto “tecniche”.
C’è chi dice no
Chi è contrario all’abrogazione del Jobs act squaderna le sue ragioni. Maurizio Del Conte, docente di diritto del lavoro all’Università Bocconi di Milano, già consulente giuridico del premier Renzi proprio per la stesura di questa legge, ne scrive sul sito Libertà eguale, think tank del riformismo progressista italiano.
Il Jobs act, premette, è «la vasta riforma del lavoro e degli ammortizzatori sociali, realizzata dal governo Renzi tra il 2014 e il 2015 con una legge delega e otto decreti legislativi. Il successo del referendum produrrebbe il ritorno alla disciplina in materia di sanzioni per il licenziamento illegittimo prevista dalla legge 92/2012, la cosiddetta legge Fornero».
«Quella disciplina, riscrivendo integralmente l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, aveva superato il principio della reintegrazione nel posto di lavoro come regola generale, distinguendo la sanzione sulla base dei motivi addotti dal datore di lavoro e accertati dal giudice»; «Essa limita la reintegrazione ai casi di licenziamento discriminatorio e disciplinare per fatto manifestamente insussistente, lasciando aperta la possibilità per il giudice di disporla in particolari casi di insussistenza dei motivi oggettivi addotti dal datore di lavoro. In tutti gli altri casi il licenziamento illegittimo è comunque efficace, ma il giudice fissa una sanzione economica in favore del lavoratore licenziato nella misura tra le 12 e le 24 mensilità».
Il Jobs Act dunque «aveva semplificato il meccanismo sanzionatorio previsto dalla legge Fornero, mantenendo la reintegrazione per i casi di licenziamento discriminatorio e per colpa manifestamente insussistente ma, per tutti gli altri casi, aveva previsto un automatismo che prevedeva una sanzione di due mensilità per ogni anno di anzianità di servizio, fino a un massimo di 24 mensilità».
«La Corte costituzionale – prosegue più avanti – è tornata più volte a pronunciarsi sul decreto legislativo 23/2015, manipolandone il testo e riducendone di molto le differenze da quello disegnato dalla legge Fornero».
E infine: «Qualora il referendum dovesse avere successo, si ritornerebbe a una disciplina, quella della legge Fornero, che è in larga parte sovrapponibile alla attuale, salvo per il massimale della sanzione economica. Con la conseguenza che la sanzione massima si ridurrebbe dalle attuali 36 mensilità a 24. La stessa Corte costituzionale, nell’ammettere il quesito referendario, ha segnalato la “circostanza che all’esito dell’approvazione del quesito abrogativo il risultato di un ampliamento delle garanzie per il lavoratore non si verificherebbe in realtà in tutte le ipotesi di invalidità” del licenziamento – perché per alcune di queste (e in particolare nel caso del licenziamento intimato al lavoratore assente per malattia o infortunio, oppure intimato per disabilità fisica o psichica a un lavoratore che non versava in realtà in tale condizione) si avrebbe, invece, “un arretramento di tutela”». Insomma, conclude Del Conte, «tanto rumore per nulla».
Perché dire sì
Di opposto avviso gli estensori del quesito. Che non negano che in caso di successo del referendum si tornerebbe alla disciplina della legge Fornero. Ma parlano comunque, in sostanza, di «ripristino dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori». Lo spiega Maria Grazia Gabrielli, della segreteria generale della Cgil: «Poiché tutti i lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015 sono molto meno garantiti di quelli che ancora godono delle tutele dell’articolo 18, sanare questa ingiusta disparità andrebbe indubbiamente nella direzione non solo della lotta alla precarietà ma anche della ricomposizione del mondo del lavoro».
Gabrielli risponde a chi sostiene che questo referendum è inutile alla luce delle modifiche contenute nel cosiddetto “Decreto dignità”, e delle sentenze poi emanate dalla Consulta che avvicinano di nuovo la disciplina dei licenziamenti al modello dell’articolo 18: «Non è vero che le due tutele (quella dell’art. 18 e quella del Jobs Act, anche con le modifiche apportate dalla Consulta) siano oramai le stesse perché è esclusa la reintegrazione per i nuovi assunti in svariati casi e, in particolare, nei licenziamenti economici, tranne rare eccezioni e cioè quando manchi del tutto il fatto giustificativo».
Continua Gabrielli: «Per questo è del tutto mistificatoria e fuorviante la tesi di chi sostiene che il Jobs Act, a confronto con l’articolo 18 dal punto di vista delle mensilità di risarcimento (36 contro 24) è più tutelante nei confronti del lavoratore, dimenticando che l’articolo 18 – ancora oggi – prevede come regola tendenziale la reintegrazione, mentre il decreto n. 23 si limita a monetizzare con il risarcimento la maggior parte dei casi di licenziamento illegittimo», «D’altra parte, i risarcimenti liquidati dai giudici sulla base del Jobs act, specie per chi non vanta un’anzianità di servizio rilevante, sono ancora di molto inferiori a quelli che spetterebbero ove si applicasse l’articolo 18».
Infine «l’abrogazione del Jobs act reintrodurrebbe la procedura conciliativa nei casi di licenziamenti economici: per i datori di lavoro con più di 15 dipendenti, infatti, è vietato procedere al licenziamento per giustificato motivo oggettivo dei dipendenti assunti prima del 7 marzo 2015 senza aver preventivamente attivato un tentativo di conciliazione presso la sede territoriale dell’Ispettorato Nazionale del lavoro. Il datore di lavoro deve quindi prima manifestare, motivandola, l’intenzione di licenziare, e solo dopo la comparizione davanti alla Commissione di conciliazione – e solo nel caso in cui non si sia raggiunto un accordo – potrà procedere al licenziamento. Tutte queste garanzie, che hanno anche l’effetto di ridurre il contenzioso giudiziario, sono state cancellate dal Jobs act».
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