I.8 settembre 1943, Italia anno zero: alleata della Germania nazista, responsabile di guerre di aggressione contro Etiopia Spagna Albania Francia Grecia Jugoslavia e Urss, sconfitta sui vari fronti, bombardata nelle città, distrutta nell’economia, affamata. Dopo lo sbarco in luglio degli anglo-americani, in Sicilia, il regime crolla, ma non per effetto dell’opposizione antifascista, ancor troppo debole. La sfiducia a Benito Mussolini nel voto del Gran Consiglio è un colpo di Stato ordito dai corresponsabili dell’avvento del fascismo, re e generali, con il concorso dei gerarchi più trasformisti.

Il governo Badoglio continua la guerra a fianco dei nazisti, ma tratta in segreto con gli Alleati, nascondendo la testa sotto la sabbia in vista della reazione tedesca e, quando questi annunciano l’armistizio – l’8 settembre appunto – lo Stato si dissolve e l’esercito viene lasciato alla mercé dei tedeschi. In cambio della salvezza lungo la via di fuga al Sud, re e generali consentono a questi di liberare Mussolini detenuto dal 25 luglio. Il lascito del trapasso di regime fu questo: trasformismo, doppio gioco, corruzione. Dal 1943 al 1945 l’Italia rimane divisa sotto due occupazioni militari (Alleati e Tedeschi) e tre governi: amministrazione americana e Regno del Sud; al Nord amministrazione nazista e Repubblica Sociale Italiana, ma anche il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia. Le conseguenze della divisione dureranno decenni.

II.Il contributo della Resistenza alla liberazione - effetto principalmente della forza militare alleata - fu importante sul piano militare e decisivo su quello politico: senza l’insurrezione del 25 aprile 1945, la conquista della Repubblica non sarebbe stata possibile e il trattato di pace sarebbe stato punitivo. Il 25 aprile però anche ogni slancio rivoluzionario si spense e la stessa unità di governo dei partiti antifascisti si ruppe nel 1947, pur continuando il confronto (e anche il contrasto ) in Assemblea Costituente.

Le esigenze della ricostruzione dell’economia spensero la domanda di trasformazione sociale e la forza tecnica della burocrazia mutò in forza politica di restaurazione della continuità dello Stato. Mentre cospicue masse di popolazione disciplinate dal regime fascista andavano accettando la democrazia, s’avviò una rimozione che mirava a ridurre la Resistenza a fenomeno ininfluente e ostacolo alla riconciliazione nazionale. Sino agli anni Ottanta il Msi rivendicò con orgoglio la eredità fascista repubblicana, negli anni Novanta le nuove destre scatenarono l’offensiva anti-antifascista, oggi quella rimozione è disegno politico di cancellazione. Con tutti i suoi limiti di ideazione e realizzazione, la Resistenza invece senza dubbio fu uno dei pochi fatti storici vissuti dagli italiani che provò a superare, nelle loro coscienze, la distanza tra convinzione morale ed etica della responsabilità, valori privati e valori pubblici. La catastrofe pose popolo e singoli davanti ad opzioni drastiche tra scelte a cui molti mai pensavano di esser convocati. Nello sfascio di ogni riferimento normativo e statale sicuro per la condotta morale personale, fu necessario scegliere in libertà e solitudine.

III.Per i resistenti, l’atto stesso dello scegliere ebbe valore di libertà e la scelta fu di disobbedienza, a partire dalla renitenza alla leva militare della Rsi; per i fascisti prevalse la volontà di confermare l’identità a cui si era assuefatti, l’obbedienza all’ordine costituito, la lealtà all’alleato nazista. Nella sua memoria (La mia Resistenza), Claudio Pavone scrive: «Nelle situazioni eccezionali può accadere, e allora accadde a molti, che sia straordinariamente rapido e chiaro il cammino che porta a maturare convinzioni e prendere decisioni irrevocabili». Certo, «bastava un nulla e ci si ritrovava dall’altra parte», ammoniva Calvino, ma i valori di onore e patria potevano essere interpretati in modo opposto a quello fascista.

Tipica della cultura degli ex fascisti repubblicani (persino di un importante storico come Roberto Vivarelli, nella propria Memoria 1943-45) è la condanna delle scelte di allora solo sul piano dell’etica pubblica e della storia, e al tempo stesso la loro giustificazione sul piano morale: si fu obbligati dalla necessità, dall’educazione ricevuta, dal contesto di guerra civile (perciò, se ci fu necessità, non ci fu libertà di scelta). Ma la distinzione è labile e contraddittoria. In realtà i giovani che scelsero la Rsi sapevano di essere coperti dallo Stato; di esercitare violenza contro resistenti, popolazione sospettata di aiutarli, civili disobbedienti, renitenti alla leva; di perseguitare i concittadini ebrei.

La conseguenza della loro libera consapevole scelta fu l’adesione alle procedure naziste e fasciste di condurre le rappresaglie e i massacri. Non si possono insomma giudicare equivalenti sul piano morale le scelte opposte di collaborazionisti e resistenti, ed equiparare sul piano storico ed etico le due parti in lotta, disprezzando la maggioranza “che stava alla finestra” (Vivarelli). Nella zona grigia vi furono infinite varietà di posizioni: l’attesa, il rifiuto cattolico della lotta di fazione, la resistenza passiva. Infinita è la varietà di rapporti che una persona può stabilire con i propri simili: è la lezione di Primo Levi.

IV. La Resistenza fu guerra patriottica, di classe, civile. Norberto Bobbio ha scritto che in una guerra civile ogni parte ritiene di avere diritto di vita e di morte senza limiti nei riguardi del nemico: nemico militare e nemico assoluto sul piano di ciò che si ritiene giusto. Ciò però non giustifica qualsiasi azione: le azioni di guerra, come le scelte politiche nella sfera pubblica, non possono essere giudicate esclusivamente in rapporto alle convinzioni che le motivano.

Solo l’etica della responsabilità le rende legittime: quando, in perfetta cognizione di causa, si può affermare che il bene che dovrebbe conseguirne prevarrà sul male che potrebbe derivarne. La violazione dell’etica della responsabilità può essersi verificata anche in qualche azione dei partigiani, ma in quella dei fascisti repubblicani fu inerente alla scelta di campo (ovvero, nel primo caso fu colpa morale del soggetto, nel secondo, fu manifestazione coerente di un concezione politica e militare).

V. Quanto più in questi anni è cresciuta una coscienza europea, tanto più la Seconda guerra mondiale è apparsa non solo un conflitto esterno tra stati, ma anche un conflitto interno: una guerra civile in ogni paese tra i sostenitori del Nuovo Ordine hitleriano e una nuova Europa delle libertà e delle autonomie. La guerra civile combattuta da cittadini ribelli al proprio stato considerato illegittimo era parte di una guerra internazionale che alimentava e giustificava la guerra civile.

Questo processo circolare lo abbiamo visto ripetersi nelle guerre internazionale combattute in forma di guerra civile nell’epoca della Guerra Fredda (si pensi al Vietnam e al sudest asiatico, ma anche al Medio Oriente) e soprattutto – l’osservò subito Alex Langer- nella guerra nella ex Jugoslavia degli anni Novanta, mirante alla forzata riaggregazione etnica dei Balcani sino al limite della sottomissione totale, dell’espulsione di massa, persino del genocidio. E la stessa guerra di aggressione russa all’Ucraina ha anche un carattere esplicito di guerra civile, mentre l’ideologia dello “spazio russo” nega agli ucraini la dignità stessa di nazione.

I dilemmi di allora si ripropongono, a partire dal diritto alla resistenza. Il fascismo fu essenzialmente nazionalismo. In un contesto odierno di guerre tra stati nazionali e in cui il nazionalismo è tornato un attore di primo piano, in forma di sovranismo politico e protezionismo economico (magari come reazione alla unificazione globale dei mercati e al disagio sociale), si deve ribadire con forza che nessun popolo può essere circoscritto in confini etnici netti, e che la modifica dei confini nazionali ha inevitabilmente un costo di conflittualità spaventoso. Come oggi in Europa orientale. Da tale prospettiva, serve anche ripensare le resistenze europee e le loro idee costituzionali a partire dai primi progetti federalistici, quali migliori garanzie della tutela delle minoranze religiose, linguistiche, nazionali e dei diritti individuali e collettivi.

-----------------------------------------

Da tale prospettiva serve leggere la Costituzione Italiana, che l’Assemblea costituente eletta a suffragio universale il 2 giugno 1946 avrebbe scritto; essa era già il riflesso del contesto internazionale aperto dalla II Guerra. Prendiamo ad esempio, l’Articolo 1. Questo articolo solleva il problema della sovranità della Repubblica in un contesto che non è nazionalista e nel quale le relazioni economiche e politiche internazionali diventano vieppiù avvolgenti per l’Italia e i singoli stati.

Vittorio Emanuele Orlando aveva preconizzato il deperimento della sovranità nazionale in un mondo di interazioni strette tra gli stati quando parlò, a questo proposito, della condizione “rivoluzionaria” in cui si venne a trovare l’Italia dopo la disintegrazione dello Stato, l’8 settembre 1943. Intervenendo alla Consulta, della quale era Presidente, Orlando tratteggiò “la infinita paurosa grandezza storica” di quegli eventi, associati a «trenta anni di spaventose guerre e distruzioni» e rappresentativi di «quelle svolte nella storia dell’umanità che contrassegnano le ere in cui essa si divide. Lo stesso ricordo della Rivoluzione francese del 1789, osservava, si impicciolisce al confronto» di questa nuova ‘rivoluzione’, riguardando essa i rapporti a livello globale e il mutamento dello «Stato di nazione» che «dovrà cedere» l’«assolutezza della sovranità» e prepararsi alla «maniera di futura sovranità di Stato [che] sarà limitata da una organizzazione superiore».

Orlando si riferiva all’organizzazione superiore che stava allora nascendo, ovvero alle Nazioni unite, alla cui appartenza l’Italia venne “invitata” a candidarsi con l’armistizio del 3 e 29 settembre 1943, con il quale le Potenze Alleate ed Associate dichiararono di «appoggiare le domande che l’Italia presenterà per entrare a far parte delle Nazioni Unite ed anche aderire a qualsiasi convezione stipulata sotto gli auspici delle predette Nazioni unite».

Con la firma del Trattato di Pace di Parigi (10 febbraio 1947), il governo italiano si impegnava a sostenere i diritti fondamentali alla cui formulazione l’Assemblea Costitutente stava peraltro già lavorando dall’estate del 1946. Di grande interesse a tal riguardo fu la discussione in Prima Sottocommisione (20 novembre 1946) sul modo di formulare i diritti civili tenendo fuori le rispettive visione ideologiche per attenersi ad una formulazione essenzialmente giuridica (Aldo Moro chiarì in quell’occasione che una base comune a tutti c’era ed era “antifascista”, con una sua “visione” di Stato che era “democratico” ed antitetico a quello fascista perchè fondato sull’“autonomia della persona”).

Nella lotta antifascista era emerso dunque quel nucleo di valori che si incontrava senza sforzo con quello che ispirava gli estensori della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani (1948). La Costituzione ha dato all’Italia un legittimo passaporto a partecipare a pieno titolo alla comunità internazionale che dal 1945, con l’istituzione delle Nazioni Uniti e poi con l’inizio dei trattati che avrebbero dato il via all’Unione Europea, si apprestava a trasformare radicalmente sia il vecchio ordine internazionale fondato sugli stati assoluti sia quello più recente, e fallimentare, che dopo la Prima guerra mondiale aveva cercato di correggerlo con la Società delle Nazioni.

Come ha scritto Roberto Toniatti, se, in relazione alla genesi della Costituzione italiana, il contesto internazionale e le sue fonti normative sono stati sin qui considerati quali fonte di obbligazioni e restrizioni per la nascente Repubblica italiana, «giova anche segnalare come l’Italia, in virtù della sua Costituzione repubblicana e delle aspettative circa la sua effettività, ha successivamente potuto essere fra gli Stati fondatori del Consiglio d’Europa, fra i firmatari della Convenzione europea per la tutela dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU) e fra i destinatari originari dell’attività giurisdizionale della Corte Europea per i diritti dell’uomo (CtEDU) con sede a Strasburgo; nonché fra gli Stati membri fondatori delle Comunità Europee poi trasformatesi in Unione Europea, la quale ha sviluppato un proprio autonomo sistema di protezione dei diritti fondamentali, garantiti dalla Corte di giustizia dell’Unione Europea di Lussemburgo».

La lungimiranza e la saggezza dei costituenti non può che destare ammirazione. Umberto Terracini, aprendo la seconda seduta plenaria sul testo da discutere e votare proposto dai membri della Commissione dei 75 e del Comitato di Redazione, disse che i costituenti «sono andati avanti un po’ all’avanscoperta per tutti noi in questo terreno nuovo e inesplorato dei problemi costituzionali». E, dando inizio «all’opera fondamentale» della discussione e votazione finale degli articoli in Assemblea plenaria, il 4 marzo 1947, si appellò a queste stesse virtù e capacità politiche invitando i costituenti ad essere un «esempio al paese di intransigenza morale, di modestia di costumi, di onestà intellettuale, di civica severità: ed ancora ... di reciproco rispetto, di responsabile ponderatezza negli atti e nelle espressioni, di autocontrollo spirituale e fisico, di sdegnosa rinuncia ad ogni ricerca di facili popolarità pagate a prezzo del decoro e della dignità dell’Assemblea».

Nonostante il milieu etico-politico fascista, avverso all’agire pubblico libero nel quale molti dei nostri costituenti si erano formati, la condivisione di uno spazio collettivo di dialogo da essi costruito li rese educatori di se stessi, se così si può dire, sperimentatori ed edificatori insieme. Nel suo intevento in plenaria, Piero Calamandrei sottolineava la complessità dell’opera, un lavoro collettivo e lungo, svolto “necessariamente all’interno di diverse sottocommissioni e delle sezioni di esse, e di più ristretti comitati; in tante piccole officine, in tanti piccoli laboratori, ciascuno dei quali ha prerarato uno e più pezzi” dell’intero progetto. Questa complessità e questa lungimiranza che riusciva a vedere oltre lo spazio della sovranità nazionale, la si vede a partire dall’Articolo 1.

Si presti attenzione al fatto che, nel designare l’indentità politica del paese – «l’Italia è una Repubblica democratica» – questo articolo non si serve del termine nazione nè si identifica con una nazionalità definita in ragione di un’idenità proclamata; parla invece dell’Italia, uno spazio giuridico, storico e culturale abitato da persone che promettono a se stesse essenzialmente responsabilità sociale e rispetto delle norme comuni; persone che in quanto cittadini che “lavorano” non di definiscono secondo una identità nazionale predefinita ma come un popolo di liberi e uguali.

L’Articolo 1, ha scritto Paolo Costa, proietta la democrazia costituzionale “dal lavoratore al cittadino, dal cittadino all’essere umano” rivelandosi un criterio inclusivo ed elastico, luogo di nuovi diritti (e di resistenza a nuove dipendenze) e di una soggettività che richiede uno sforzo immaginativo per riscrivere invece che azzerare lo stato sociale. Dal «fondata sul lavoro» si sprigiona un’universalismo e un principio di inclusione e di accoglienza le cui potenzialità sono enormi e non sufficientemente sottolineate e apprezzate, tendendo conto anche del fatto che quell’articolo venne concepito e scritto dieci anni prima del Trattato di Roma.

Parlando in Assemblea plenaria, Lelio Basso invitava a guardare agli articoli sul lavoro non come ad un patto fra attori che guardavano al passato o che cercavano compromessi per un futuro breve, ma come un impegno che i cittadini di domani prendevano con se stessi a non cessare mai di preoccuparsi delle condizioni effettive della loro dignità, quale fosse stato il contesto: «Finché non sarà garantito a tutti il lavoro, non sarà garantita a tutti la libertà; finché non vi sarà sicurezza sociale, non vi sarà veramente democrazia politica; o noi realizzeremo interamente questa Costituzione, o noi non avremo realizzata la democrazia in Italia».

© Riproduzione riservata