Secondo uno studio, le donne che lavorano nel sex working corrono un rischio di omicidio dalle 60 alle 100 volte maggiore rispetto a chi non è coinvolto nel settore. L’ultimo caso in Italia è stato quello di Denisa Paun. «Vengono uccise perché vivono in un sistema che le considera sacrificabili», dice l’attivista Pia Covre
Denisa Paun, una sex worker di trent’anni e di nazionalità romena, è scomparsa a Prato poco meno di un mese fa, il 15 maggio. La donna è stata trovata senza vita tre settimane dopo nei pressi di un casolare abbandonato a Montecatini Terme, in Toscana. Un uomo che l’aveva incontrata tramite un’app di incontri, impiegato come guardia giurata, ha confessato di averla uccisa strangolandola, averne smembrato il corpo e averlo nascosto in una valigia, dove poi è stato ritrovato.
Secondo uno studio del 2008, le donne che lavorano nel sex working corrono un rischio di omicidio dalle 60 alle 100 volte maggiore rispetto a chi non è coinvolto nel settore. Una delle rare analisi statistiche italiane sul tema, condotta dalla professoressa Paola Degani dell’università di Padova e Gianfranco Della Valle, coordinatore del Numero Verde Nazionale Antitratta, riporta che tra il 1988 e il 2018 ne siano state uccise circa seicento.
Ma in Italia, dove il sex work non è illegale ma è regolato da un impianto normativo abolizionista, l’assenza di specifiche tutele sociali e di un riconoscimento istituzionale finiscono per invisibilizzare ancora di più questi femminicidi nella percezione pubblica.
Il problema dei dati
«È l’ennesimo femminicidio, ma quando riguarda una sex worker non viene chiamato così, né viene conteggiato. Ogni volta che una sex worker viene uccisa, ci viene detto che è il “rischio del mestiere”, che “sapeva a cosa andava incontro”», dice Pia Covre, attivista italiana, ex sex worker e cofondatrice nel 1982 del Comitato per i diritti civili delle prostitute (Cdcp), una delle più importanti associazioni impegnate nella promozione del riconoscimento legale del lavoro sessuale.
In Italia la Legge 5 maggio 2022, n. 53 (nota anche come “legge Valente”), che obbliga a raccogliere dati sistematici sulla violenza di genere, non è ancora pienamente attuata a causa di mancanza dei decreti attuativi, risorse finanziarie e dell’integrazione tra le banche dati delle varie istituzioni. Ma se già manca una raccolta statistica strutturale sui femminicidi, le sex worker vittime di omicidio non vengono nemmeno incluse in questi pochi dati ufficiali, perché ritenute a “rischio occupazionale” piuttosto che vittime di un fenomeno strutturale di violenza misogina.
Nel 2020, il movimento femminista Non una di meno (Nudm) ha lanciato il primo Osservatorio femminicidi lesbicidi transcidi (Flt) in Italia, che cerca di riempire questo vuoto istituzionale monitorando e analizzando costantemente la violenza maschile contro le donne e le soggettività lgbt.
A oggi è l’unica raccolta dati del paese aggiornata, oltre che sempre consultabile online, che include tra le vittime di femminicidi le persone sex worker. Raccogliere i dati su base volontaria, però, non è facile, soprattutto considerata la natura clandestina del fenomeno e lo stigma sociale legato al settore, e non basta per garantire politiche di prevenzione o anche solo risposte investigative adeguate, dice Nudm a Domani.
L’assenza di una classificazione istituzionale di vittime e circostanze, come condizione migratoria o identità di genere, porta infatti a trattare questi omicidi come episodi isolati, rendendo complesso il riconoscimento di pattern ricorrenti e così anche l’identificazione degli autori. Secondo il 4° Rapporto Eures, infatti, di tutti i femminicidi di donne sex worker fra il 2000 e il 2016 il 44,6 per cento rimane irrisolto, a fronte dell’11,4 per cento dei femminicidi totali.
Lo sfruttamento
«Parliamo tanto di sicurezza sul lavoro, e invece ci sono settori che ne sono totalmente esclusi, a partire proprio dai dati, perché avere più informazioni su un settore va di pari passo con la ricerca e con la tutela», dice a Domani Matteo Hallissey, presidente di +Europa e dei Radicali Italiani. «Quando la società ti considera i margini, non ti dà diritti e tutele, ovviamente questo crea e rafforza una spirale di violenza. Questi casi di cronaca particolarmente brutali ci fanno tornare a parlare dell’argomento, ma sono violenze sistematiche», aggiunge Hallissey.
Secondo le statistiche disponibili, gli autori di questi delitti appartengono prevalentemente al genere maschile. Le reti criminali di tratta rappresentano una porzione significativa degli autori, ma altrettanto rilevanti sono i clienti occasionali che agiscono in un contesto di anonimato e impunità. La loro età media, poi, è più alta rispetto alle vittime.
Le sex worker vittime di femminicidio, infatti, hanno in media circa trent’anni e mezzo, ed è un dato, secondo gli studi, determinato soprattutto dal numero di donne straniere, che rappresentano la stragrande maggioranza delle sex worker in Italia (l’85 per cento del totale). Circa tre su quattro di loro ha infatti tra i 18 e i 34 anni e spesso si tratta di persone scomparse negli archivi anagrafici, prive di una rete familiare in Italia, denunciano le associazioni, che segnalano, tra giovane età e condizioni di estrema vulnerabilità economica, una chiara connessione tra sfruttamento e violenza di genere.
«Non è il lavoro sessuale che uccide. Uccide l’assenza di tutele, la criminalizzazione, lo stigma sociale, il patriarcato. Chi ha responsabilità politiche e istituzionali è complice», commenta Pia Covre. «Le sex worker vengono uccise perché vivono in un sistema che le considera sacrificabili. Vengono uccise perché le istituzioni le vogliono senza diritti», aggiunge.
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