Il 22 aprile scorso Saïd Djabelkhir, accademico e giornalista algerino, fondatore del circolo dei «Lumi per il pensiero libero», che si occupa di Islam, è stato condannato a tre anni di carcere e a pagare una multa da 50mila dinari, per aver pubblicato su Facebook dei contenuti ritenuti offensivi dell’Islam.

La sua condanna prende a riferimento l’articolo 144 del codice penale algerino che, al secondo comma, punisce le offese al profeta dell’Islam o le critiche ai precetti della religione musulmana. Djabelkhir, 52 anni, è stato incriminato e processato dopo che sette avvocati e un collega d’università hanno presentato una denuncia contro di lui.

I fatti

La vicenda ha inizio quando l’accademico, nel rispondere a un predicatore salafita, che aveva emesso una fatwa contro il capodanno berbero, aveva sostenuto che alcuni rituali islamici esistevano in realtà da molto tempo prima che Maometto li codificasse. Allo stesso modo il giornalista aveva sostenuto che il pellegrinaggio alla Mecca ed altre tradizioni islamiche erano in realtà riti pagani e pre islamici.

Secondo l’accusa le affermazioni di Djabelkhir sono lesive della dignità della religione islamica e per questo motivo da condannare. Il giorno della sentenza, uscendo dall’aula del tribunale, Saïd Djabelkhir ha dichiarato che il suo caso è parte di una «lotta che deve continuare per la libertà di coscienza, per la libertà di opinione e per la libertà di espressione. Perché la lotta per la libertà di coscienza non è negoziabile». Non aveva però immaginato le evoluzioni dei mesi successivi.

Con una lettera datata 9 agosto 2021 i relatori speciali delle Nazioni Unite che si occupano di libertà di religione, di credo e di libertà d’espressione, Ahmed Shaheed e Irene Khan, hanno chiesto conto al governo algerino della condanna di Djabelkhir, soprattutto dal punto di vista della tutela della libertà d’espressione, avendo l’Algeria ratificato il 12 settembre 1989 il Patto internazionale per la tutela dei diritti civili e politici.

Tale condanna potrebbe, secondo la lettera dei relatori speciali, costituire l’esito di una persecuzione giudiziaria risultato di ricorsi fondati sull’interpretazione soggettiva di «insulti o offese contro la religione». Paradossale appare la risposta del governo di Algeri alle richieste di chiarimento dei due relatori speciali.

Una risposta paradossale

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Nella lettera del 24 settembre scorso l’esecutivo si difende l’operato dei giudici nazionali argomentando come le norme del codice penale algerino siano conformi ai trattati internazionali sui diritti umani. E fin qui, anche se ci sarebbe da dire, ordinaria amministrazione.

Nella lettera, per dare ulteriore forza alla posizione del governo algerino, si cita a supporto addirittura una sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, relativa al caso E.S. contro l’Austria del 25 ottobre 2018 in cui si era riconosciuta la non violazione dell’articolo 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo con la previsione di norme sulla blasfemia nel codice penale di uno stato membro. Questo secondo l’argomento per cui la libertà d’espressione di un individuo può essere legittimamente compressa qualora il suo esercizio urti il sentimento religioso dei credenti.

Già all’epoca numerosi esperti avevano criticato questo approccio della Corte che sembrava attribuire la titolarità dei diritti non agli individui, ma ad astratte idee e sentimenti. Provoca oggi un certo sgomento ritrovare riferimenti alla giurisprudenza del massimo organo europeo per la tutela dei diritti umani come argomento a sostegno dell’incarcerazione di un individuo, colpevole di aver esercitato il suo diritto alla libertà d’espressione.

A maggior ragione quando questo accade contro una persona ripetutamente presa di mira per le sue opinioni, sia con campagne d’odio rivolte nei suoi confronti, sia mediante vere e proprie minacce di morte. Quella di Djabelkhir è solo una storia del grande buco nero che sta inghiottendo minoranze e dissidenti in tanti paesi del mondo.

Gli stati europei restano spesso e volentieri a guardare in silenzio. Ma non eravamo mai arrivati a pensare di poter fornire materiale intellettuale utile alla repressione. Almeno fino ad oggi.

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