Lo ha fatto con energia e debito, ora ripete l’errore nei rapporti con la Cina: va da solo, Olaf Scholz, e senza neppure trascinarsi dietro una visione comune europea.

Giovedì e venerdì il cancelliere tedesco sarà a Pechino. Sarà il primo leader occidentale a fare visita a Xi Jinping dall’inizio del suo terzo mandato, e ha voluto pure essere l’unico: ci aveva provato, Emmanuel Macron, ad aggregarsi, ma Berlino ha declinato.

Come accompagnatori, il cancelliere ha preferito piuttosto i rappresentanti del comparto produttivo tedesco; e già questo fa intuire perché il suo viaggio stia creando malumori sia dentro che fuori dalla Germania. Nella coalizione semaforo, tanto quanto nei consessi europei, l’accusa a Scholz è di ripetere con Xi Jinping gli stessi errori fatti da Berlino con Vladimir Putin.

Gli Stati Uniti rinserrano il fronte anticinese e premono per il decoupling, cioè la rottura di legami e interdipendenze tra Europa e Cina. Mentre Bruxelles adatta la propria strategia su quella statunitense, intanto la Germania pensa anzitutto alle proprie imprese e resta in bilico.

Se almeno Scholz, coi suoi equilibrismi, coalizzasse il resto dell’Ue – Francia inclusa – su una posizione alternativa, l’Europa potrebbe rivendicare una sua strategia. Ma non è così. Il leader socialdemocratico fatica a tenere uniti persino i suoi stessi alleati.

A dispetto delle dichiarazioni fatte a inizio mandato dalla ministra degli Esteri verde, Annalena Baerbock, che preannunciava una svolta nei confronti di Pechino e più attenzione ai diritti umani, le mosse del cancelliere evocano il vecchio pragmatismo merkeliano per molti aspetti.

L’impresa cinese

Nell’autunno di tre anni fa, l’allora cancelliera Angela Merkel aveva portato con sé a Pechino, per la sua visita ufficiale, una squadra di dirigenti d’impresa, tra i quali l’amministratore delegato di Siemens.

Per quanto l’entourage di Olaf Scholz abbia mantenuto la riservatezza sui dettagli del viaggio, quel che è chiaro è che il leader socialdemocratico mantiene lo stesso schema di gioco: anche stavolta ci sarà Siemens, e anche stavolta ci saranno esponenti del mondo produttivo tedesco.  A Pechino andranno rappresentanti del comparto automobilistico – non mancherà Volkswagen – e dell’industria chimica e farmaceutica – tra i quali Bayer e BioNTech – come pure Adidas e altri colossi.

In queste settimane la Bundesverband der Deutschen Industrie, la Confindustria tedesca, sta esaminando la questione del “disaccoppiamento” dalla Cina assieme agli esperti del Mercator Institute for China Studies: anche se gli esiti dell’analisi saranno resi pubblici a fine anno, già trapelano le preoccupazioni.

Dall’inizio degli anni Duemila, e per un ventennio, la quota di esportazioni tedesche verso la Cina non ha fatto che aumentare, per poi iniziare a flettersi visibilmente nel 2021; con la pandemia sono diminuiti pure gli investimenti diretti tedeschi in Cina, ma questo non vuol dire affatto che l’economia tedesca sia pronta a recidere i legami con un paese che, ancora un anno fa, è stato il primo dal quale ha importato, e il secondo – dopo gli Usa - per esportazioni.

La transizione

Per mezzo secolo, Berlino e Pechino hanno mantenuto le loro relazioni, diplomatiche e non solo. Ma quando il governo Scholz è nato, la coalizione semaforo – che oltre ai socialdemocratici tiene insieme verdi e liberali – ha messo a battesimo un atteggiamento nuovo: nell’accordo di coalizione la Cina viene definita «un rivale sistemico».

La guerra in Ucraina non ha fatto che inasprire i problemi, sia per i rapporti di Xi Jinping con Putin, che per il crescente irrigidimento degli Stati Uniti. Nell’apparato retorico delle istituzioni europee, a cominciare dai discorsi dell’Alto rappresentante Josep Borrell, la Cina e Xi Jinping figurano ormai stabilmente al fianco della Russia e di Putin come nemici autoritari dai quali guardarsi.

Il 21 ottobre, in conclusione del suo ultimo Consiglio europeo da premier, Mario Draghi ha riferito che «quasi tutti i leader europei sono d’accordo su un punto: non dobbiamo ripetere con la Cina l’errore fatto con la Russia, il fatto di essere stati indifferenti, indulgenti, superficiali nei nostri rapporti con la Russia». Ma tra le dichiarazioni di principio e l’allontanamento di fatto da Pechino, c’è di mezzo la sirena del pragmatismo.

Le aperture di Scholz

Non a caso, i malumori dentro la coalizione di governo tedesca lievitano: i Verdi, che esprimono la ministra degli Esteri e che con la guerra in Ucraina incarnano sempre più la linea dura contro i regimi autoritari, mal sopportano le aperture del cancelliere.

Scholz, che nel 2017 da sindaco aveva accolto Xi Jinping ad Amburgo, e che è vicinissimo all’attuale sindaco Peter Tschentscher, ha avallato l’ingresso della cinese Cosco tra le compagnie che gestiscono i terminal del porto; tutto ciò a dispetto delle rimostranze degli alleati verdi e liberali, che sono valse solo a mitigare la partecipazione cinese, ferma al 24,9 per cento delle quote del terminal Tollerort invece che al 35 previsto inizialmente.

C’è chi dice che Scholz abbia voluto il regalino per ben disporre Xi Jinping durante la visita imminente, ma se è così, allora non è l’unico omaggio. La serenità con la quale il cancelliere ha affrontato la possibile acquisizione cinese di una fabbrica di chip della società Elmos a Dortmund ha prodotto molta meno serenità tra i suoi critici.

Come se non bastasse, a dicembre Duisburg ospiterà il “summit europeo sulla via della seta”, per discutere dei progetti cinesi. L’atteggiamento pragmatico del cancelliere trova una sponda nei “falchi” come l’olandese Mark Rutte, che all’ultimo vertice dei leader ha invitato «l’Ue a non andare a traino degli Usa», e come il vicepresidente della Commissione Valdis Dombrovskis, che ha la delega al Commercio e dice: «Il decoupling non è proprio un’opzione, per le aziende Ue».

Scholz aveva promesso una nuova strategia, verso la Cina; per ora, non è troppo distante da quella vecchia.

© Riproduzione riservata