All’indomani dell’attacco in Kosovo che ha portato all’uccisione di un agente della polizia kosovara, la confusione regna ancora sovrana. Di una cosa però si è certi: quanto accaduto è destinato a essere un punto di svolta nel dialogo mediato dall’Ue tra Belgrado e Pristina. L’elemento nuovo rispetto al passato è la pianificazione dell’attacco, un aspetto che pone diversi interrogativi sui mandanti dell’operazione e sul controllo nel nord del Kosovo, a maggioranza serba.

Partiamo dai fatti. Nella notte tra domenica e lunedì una pattuglia della polizia del Kosovo è intervenuta per rimuovere delle barricate e un blocco stradale attuato da due camion su un ponte a Banjska, villaggio vicino Zvecan, uno dei quattro comuni a maggioranza serba nel nord del Kosovo.

Nello scontro a fuoco che ne è seguito, un poliziotto ha perso la vita e un altro è rimasto ferito. Gli assalitori, circa una trentina, mascherati e pesantemente armati, si sono poi nascosti all’interno del vicino monastero ortodosso, circondato in seguito dalle forze di polizia kosovare.

La sparatoria è continuata per ore in tutta la giornata, provocando la morte di tre attentatori e portando all’arresto di altri sei. Al momento, le loro identità non sono state rivelate. La situazione è tornata alla calma già domenica sera, quando la polizia ha fatto irruzione nel monastero, riportandolo sotto controllo. Diversi attentatori, secondo quanto riferito da media e autorità locali, sarebbero fuggiti in Serbia. Non si esclude, si spiega a Bruxelles, che l’attacco sia avvenuto anche per mano di agenti stranieri.

Fin dalle primissime ore, Pristina ha puntato il dito contro Belgrado. Il premier Albin Kurti ha parlato di «attacco terroristico» realizzato da «professionisti del crimine» con «il sostegno politico, finanziario e logistico dei responsabili ufficiali di Belgrado».

«Non si tratta di bande criminali, ma di formazioni militari o di polizia» ha specificato Kurti, sostenuto dalla presidente kosovara, Vjosa Osmani. Versione smentita in serata dal capo di Stato serbo, Aleksandar Vucic, che per la prima volta dopo mesi è parso visibilmente in difficoltà.

Vucic ha dapprima stigmatizzato quanto avvenuto, sostenendo che «nulla può giustificare l’uccisione del poliziotto». «Un atto riprovevole», per il leader serbo, che tuttavia è il risultato della politica di «terrore» e persecuzione del premier kosovaro nei confronti della popolazione serba locale. Fin qui, nulla di nuovo.

Belgrado prende le distanze

Vucic però è sembrato ansioso soprattutto di chiarire un punto: l’attacco è opera di serbi kosovari, Belgrado non ha nulla a che vedere con quanto accaduto. Una questione che solleva degli interrogativi su chi controlla effettivamente il nord del Kosovo. Finora i quattro comuni serbi, a differenza degli altri collocati nel sud del paese, sono stati quelli più recalcitranti a essere integrati nel sistema statale del Kosovo.

Un dissenso piegato dalla Lista serba, partito direttamente controllato da Belgrado, all’indomani della firma degli accordi di Bruxelles con il Kosovo del 2013. Allora l’incentivo era l’avvio dei negoziati di adesione all’Ue, un incentivo che però ha perso slancio negli anni, allontanando la prospettiva di un ingresso relativamente rapido della Serbia nel club.

Dalle prime indiscrezioni, parrebbe che dietro l’attacco ci siano uomini del vice presidente della Lista serba, Milan Radoičić, controverso uomo d’affari sanzionato da Washington e considerato da Vucic come uno dei guardiani della Serbia in Kosovo. Anche qualora l’informazione fosse confermata, ciò non basterebbe a stabilire un coinvolgimento diretto di Belgrado. Un coinvolgimento che, a ben guardare, andrebbe contro l’interesse stesso della Serbia, che dopo l’attacco armato, potrebbe avere più difficoltà a gestire le trattative con il Kosovo mediate dall’Ue.

L’ipotesi contraria, che implicherebbe la perdita di controllo da parte di Belgrado del nord del Kosovo, di quelle che Pristina chiama «strutture illegali», o anche di parti dell’apparato statale serbo, potrebbe aprire scenari ancor più preoccupanti.

Il dialogo fallito

Dopo l’invasione russa dell’Ucraina, Bruxelles e Washington erano corse ai ripari cercando di riavviare il dialogo tra Belgrado e Pristina con l’obiettivo di riportarli sui binari dell’integrazione europea e di scongiurare l’apertura di un nuovo fronte nei Balcani occidentali, sottraendo Belgrado alla sfera di influenza del suo alleato tradizionale, la Russia, e facendo venir meno la leva più potente di Mosca nei Balcani, la destabilizzazione del Kosovo. Ma la strada per l’inferno è lastricata di buone intenzioni.

Finora il dialogo è riuscito a produrre un’intesa rimasta inattuata, con una conseguente escalation sul campo caratterizzata da un’intensità crescente delle tensioni, già culminate nel maggio scorso con il ferimento di oltre novanta soldati della missione Nato in Kosovo (Kfor) durante una manifestazione di cittadini serbi nel nord del Paese.

Solo una decina di giorni fa Bruxelles aveva assistito impotente di fronte a un nuovo fallimento dei round di negoziati. Segno evidente che c’è chi - in Kosovo, in Serbia o all’estero - non ha interesse a stabilizzare l’area e che è urgente correggere il tiro per ristrutturare il dialogo su presupposti diversi. 

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