Alla fine di gennaio ci sarà il primo anniversario della Brexit, ovvero dell’effettiva entrata in vigore degli accordi di separazione tra il Regno Unito e l’Unione europea, a seguito del referendum del 23 giugno 2016. È quindi l’occasione per un primo provvisorio bilancio.

Nel 2016, quasi il 52 per cento degli elettori inglesi votarono a favore di Brexit, ma lo fecero per le motivazioni più disparate. Dal desiderio di riprendere in mano il controllo sull’immigrazione proveniente da altri paesi dell’Unione europea, che peraltro ha trovato supporto negli “immigrati storici” dalle ex colonie britanniche, alle speranze della mia vicina di casa, la quale si augurava un crollo dei prezzi delle abitazioni per consentire al figlio di acquistare la sua prima casa.  

L’ala storicamente euro-scettica del partito conservatore, voleva più libertà da quelli che erano percepiti come inutili vincoli e oneri burocratici imposti da Bruxelles, e non solo. Vi erano anche sentimenti di orgoglio nazionale con profonde radici nella storia britannica, quella di un’ex potenza coloniale che ha vinto le due guerre mondiali, sintetizzati nello slogan Take back control.

Inoltre, un’ala ultra liberista, minoritaria ma importante, ingenuamente sognava un mercato ancor più aperto, deregolamentato, a tassazione bassa per aumentare la dinamicità dell’economia e trasformare il Regno Unito in una specie di Singapore europea.

E infine vi era un’ala più squisitamente populista che riusciva paradossalmente a coniugare alcune delle istanze citate con temi anti immigrazione, sentimenti protezionistici e di rivincita da parte delle zone rurali impoverite rispetto alla capitale multietnica che si proiettava sempre più internazionalmente. Fece proprie anche alcune istanze sociali tradizionalmente appannaggio della sinistra.

Una buona dose di populismo e disinformazione permise ai sostenitori della Brexit, e poi al partito conservatore alle elezioni politiche successive, di sfondare anche in collegi tradizionalmente roccaforti della sinistra, anche grazie al mal celato euroscetticismo da parte dell’opposizione laburista, allora rappresentata dal leader Jeremy Corbyn.

La componente che ha prevalso nel governo inglese è quest’ultima. In Italia si chiamerebbe la “destra sociale”, ben rappresentata anche in molti altri paesi europei. Con queste premesse, era impossibile che Brexit venisse incontro alle aspettative di tutti coloro che la votarono.

È andata malamente

In un recente sondaggio condotto da Opinium per The Observer, più del 60 per cento degli elettori inglesi ha detto che Brexit è andata “malamente” oppure “peggio delle attese”. Il 42 per cento di coloro che hanno votato per lasciare l’Unione europea nel 2016 hanno un’opinione negativa di quanto è accaduto successivamente. Infatti, anche cercando di essere equidistanti, è difficile trovare dei lati positivi.

Il Regno Unito è sempre più isolato internazionalmente. Le questioni ancora aperte con l’Unione europea non si contano, ed è venuta meno da tempo la fiducia reciproca. Il tentativo di guardare al Commonwealth per sostituire gli stretti legami commerciali con l’Unione europea si è rivelata un’illusione.

I rapporti con gli Stati Uniti dell’amministrazione Biden sono diventati freddi. Quelli con la Cina si sono completamente congelati, dopo un corteggiamento durato anni per lanciare Londra come l’hub finanziario cinese in Europa.

Per quanto gli effetti della Brexit sulla piazza finanziaria londinese non siano ancora importanti, di fatto è stata gettata alle ortiche la possibilità di mantenere una indiscussa posizione dominante in mercati finanziari europei sempre più integrati.     

Il Cer ha recentemente stimato un impatto negativo dell’11,2 per cento sull’interscambio a causa di Brexit. Dal 2016, la quota inglese nel commercio mondiale si è ridotta di un ulteriore 15 per cento rispetto alle previsioni pre referendum che già prefiguravano una contrazione a causa dell’aumento della quota cinese.

I problemi economici

Inoltre, dal 2016, e soprattutto nell’ultimo anno, l’afflusso di lavoratori dall’Unione europea ha iniziato a venir meno, provocando scompensi importanti in settori come l’ospitalità, la ristorazione, l’agricoltura, gli autotrasporti e la sanità.

Sino ad ora l’impatto complessivo sull’economia è stato in linea con quanto indicato nelle contestate previsioni del Tesoro inglese e quelle dell’Obr (il fiscal council inglese) prima del referendum. Indicavano un impatto complessivo negativo del 4-5 per cento sul livello del Pil al 2030, rispetto ad uno scenario contro fattuale di assenza di Brexit.

Infine, anche l’illusione di poter dare un impulso all’economia grazie alla riduzione della tassazione, si è scontrata con le nuove necessità di spesa pubblica per il settore sanitario, il contrasto ai cambiamenti climatici, gli investimenti infrastrutturali, e le varie promesse elettorali, al punto da costringere il governo ad alzare le tasse.

Ovviamente Brexit si mescola anche agli effetti economici della pandemia, e quindi il giudizio finale è da ritenersi ancora sospeso. Tuttavia, il malcontento è diffuso anche all’interno del partito conservatore. È stato evidenziato dalle recenti dimissioni del capo negoziatore di Brexit, David Frost, che ha preso le distanze «dall’attuale direzione di marcia» del governo.      

Cosa rimane dunque delle speranze legate alla Brexit? È rimasta la caparbietà e la determinazione di una nazione che ha superato sfide difficili in passato e che sembra avere ancora molte carte da giocare. Ma se questo avverrà non sarà per Brexit, ma nonostante Brexit.

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