Sono ormai oltre 500.000 i profughi, da una parte e dall’altra del confine, in fuga dai combattimenti tra gli eserciti thailandese e cambogiano, ripresi intensamente nonostante Donald Trump avesse provato a spacciare per pace la fragile tregua raggiunta a ottobre sotto il suo auspicio. Secondo le testimonianze delle agenzie umanitarie, i civili si sono riversati in rifugi di fortuna, pagode, scuole e centri di accoglienza. Le immagini diffuse dai circuiti internazionali mostrano famiglie in fuga, soldati trasportati negli ospedali e una marea umana in marcia nel tentativo di mettersi in salvo.

La Cambogia denuncia raid aerei da parte di Bangkok, mentre la Thailandia accusa Phnom Penh di aver piazzato mine e lanciato razzi oltre confine. Si registrano bombardamenti incrociati e l’uso di carri armati e droni. Il ministero della Difesa cambogiano ha dichiarato che 9 civili sono stati uccisi negli scontri iniziati lunedì e altri 20 sono rimasti gravemente feriti, mentre funzionari thailandesi hanno riferito che 4 soldati sono morti e 68 sono rimasti feriti.

La zona contesa

Alla radice di questa nuova fiammata vi è una disputa territoriale che affonda nelle mappe coloniali del XIX secolo. La zona contesa, attorno al tempio di Preah Vihear e ad altri siti lungo la frontiera, è oggetto da decenni di rivendicazioni contrapposte. La Corte internazionale di giustizia ha riconosciuto la sovranità cambogiana su parte dell’area, ma la questione non è mai stata risolta del tutto. Ma è soprattutto la politica interna in entrambi i paesi che rischia di far collassare del tutto il cessate il fuoco di ottobre.

Il governo thailandese, guidato da tre mesi dal premier Anutin Charnvirakul, è sotto pressione per la gestione delle devastanti inondazioni nel sud del paese e accuse di corruzione, con le elezioni alle porte (sono previste per marzo). La popolarità di Anutin è crollata al 23 per cento e la guerra, fomentando il nazionalismo, potrebbe mantenerlo attaccato alla poltrona, generali permettendo (l’esercito in Thailandia conta tanto).

Anche la Cambogia è sottoposta a pressioni politiche ed economiche. La Banca asiatica di sviluppo ha ridotto la sua previsione di crescita del Pil per il 2025 dal 6,1 per cento al 4,9 per cento, in parte a causa dei rischi legati alle tensioni di frontiera. L’ondata di lavoratori migranti indebitati di ritorno, bisognosi di occupazione, e la diffusione dei centri di cybertruffa in Cambogia creano tensioni economiche e sociali.

A complicare ulteriormente il quadro, ci sono proprio i centri trans frontalieri di truffe online, nei quali sarebbe impiegato lavoro forzato, che hanno messo a segno in tutto il mondo raggiri per centinaia di milioni di dollari. I thailandesi accusano i cambogiani di tollerare le attività del cinese-cambogiano Chen Zhi, a capo del Prince Group sanzionato dagli Usa, che sarebbe una delle menti di questi imbrogli telematici.

Oltre i trionfalismi di trump

In un quadro così complesso, la tregua firmata a Kuala Lumpur lo scorso ottobre sotto l’egida di Trump si è rivelata un castello di carte. Il presidente americano aveva presentato l’accordo come una «pace storica», celebrandolo come prova della sua capacità di risolvere conflitti globali. In realtà, si trattava di un incerto stop ai combattimenti, privo di meccanismi di monitoraggio e di garanzie concrete. E così sono bastati pochi mesi perché la violenza riesplodesse, smentendo la narrazione trionfalistica di Washington.

Eppure qualche giorno fa Trump ha rilanciato, annunciando durante un comizio in Pennsylvania che fermerà i combattimenti con una telefonata ai capi dei due governi. La regione però si trova di fronte a una delle crisi più gravi degli ultimi anni, che la comunità internazionale teme possa destabilizzare l’intero Sud‑Est asiatico.

L’Associazione delle nazioni del Sud-Est asiatico (Asean) ha chiesto un cessate il fuoco immediato, ma alcuni paesi membri dipendono fortemente dagli scambi con la Cina, altri guardano agli Stati Uniti per la sicurezza, e questa divisione paralizza la sua capacità di mediare. Pechino osserva con attenzione: la stabilità del Sud‑Est asiatico è cruciale per le sue rotte commerciali.

Washington, invece, teme che il conflitto destabilizzi le catene di approvvigionamento globali e riduca la libertà di navigazione nel Mar cinese meridionale. Dopo la tregua di ottobre, gli Usa hanno ribadito il sostegno a un processo multilaterale, ma la credibilità della mediazione americana è stata indebolita dalla “pace di Trump”, rivelatasi un fallimento.

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