Aggiornamento 28 luglio: Dopo cinque giorni di scontri armati e crescenti tensioni diplomatiche, la Thailandia e la Cambogia hanno annunciato, con la mediazione della Malaysia, un accordo per un cessate il fuoco a partire dalla mezzanotte del 28 luglio. «La Thailandia e la Cambogia hanno raggiunto un accordo che prevede una tregua incondizionata», ha dichiarato il primo ministro malese Anwar Ibrahim dopo tre ore di colloqui con i premier dei due paesi a Putrajaya. Si tratta, secondo Anwar, di «un passo fondamentale verso la distensione e il ripristino della pace e della sicurezza».

Il bilancio della crisi è di almeno 36 vittime (23 in Thailandia, tra cui nove soldati, e 13 in Cambogia, tra cui cinque militari) e circa 280mila sfollati, distribuiti quasi equamente tra i due paesi.

Il primo ministro tailandese ad interim, Phumtham Wechayachai, ha ringraziato la Malaysia, che in questo semestre detiene la presidenza di turno dell’Asean, oltre a Cina e Stati Uniti. In particolare, ha citato anche il presidente Trump, che il 26 luglio aveva esortato le parti a raggiungere un’intesa, minacciando in caso contrario la sospensione dei negoziati commerciali con entrambi i paesi.


Tra il 23 e il 24 luglio si è registrata una drammatica escalation delle tensioni tra Thailandia e Cambogia lungo il loro confine, riaccendendo contese mai del tutto sopite. La linea di frontiera, tracciata all'inizio del Novecento da cartografi coloniali francesi, è stata definita in modo impreciso e ambiguo, lasciando margini di interpretazione e ampie aree grigie che si prestano a rivendicazioni contrastanti e a periodiche escalation di conflitto. Proprio in queste aree — spesso sede di antichi templi Hindu-Khmer rivendicati da entrambi i paesi — si concentrano da anni le principali frizioni.

I combattimenti delle ultime ore sono scoppiati dopo che, per la seconda volta in una settimana, una mina è esplosa nella zona contesa causando l’amputazione di una gamba per un soldato thailandese. Le relazioni diplomatiche tra i due paesi sono rapidamente precipitate, con Bangkok e Phnom Penh che si accusano reciprocamente di aver innescato l’escalation e gli scontri armati continuano.

Secondo le autorità di Bangkok, negli scontri delle ultime ore almeno undici civili thailandesi e un soldato sono stati uccisi, mentre altre 31 persone risultano ferite – la Cambogia, al momento, non ha diffuso un bilancio ufficiale delle vittime civili. Si tratta dei combattimenti più gravi tra i due paesi da oltre un decennio.

La situazione resta estremamente tesa e fluida, con il rischio concreto che gli scontri possano intensificarsi nei prossimi giorni. Ma come si è arrivati a questo punto? E quale impatto potrebbe avere questa nuova crisi sull’equilibrio geopolitico del Sud-est asiatico, in un momento in cui Cina e Stati Uniti osservano con crescente attenzione ogni mossa nella regione?

Breve storia di un confine conteso

Il confine terrestre tra Thailandia e Cambogia si estende per oltre 800 chilometri, attraversando una regione morfologicamente complessa e culturalmente stratificata. In molti tratti, la linea di demarcazione non è stata tracciata in modo definitivo, e le comunità che vivono lungo la frontiera spesso condividono lingua, tradizioni religiose e riferimenti culturali. Questo contesto ha reso la frontiera un terreno fertile per dispute tra i due paesi, alimentate da una sovrapposizione di rivendicazioni storiche.

Le radici del conflitto affondano nella fase coloniale europea nel Sud-est asiatico. Alla fine dell’Ottocento, la Cambogia veniva inglobata nel protettorato francese dell’Indocina e, nel tentativo di consolidare la propria influenza sulla regione, la Francia iniziò a ridisegnare i confini tra le sue colonie e i vicini sudest asiatici, tra cui il Siam - l’odierna Thailandia. Di fatti, a inizio Novecento, la Francia e il Siam firmarono trattati per definire i confini lungo la catena montuosa dei Dângrêk, che separa i due paesi.

Nel 1907, ufficiali francesi realizzarono una mappa ufficiale che includeva, all’interno del territorio cambogiano, alcune aree di importanza culturale ricche di templi Khmer- Hindu, come il Preah Vihear e il Prasat Ta Muen Thom. Tuttavia, le indicazioni cartografiche non corrispondevano sempre al testo dei trattati e questa discrepanza generò ambiguità che, anziché essere chiarite nel tempo, sono rimaste congelate alimentando tensioni mai del tutto sopite. Le comunità che abitano queste zone parlano tanto il thai quanto il khmer, riflettendo un tessuto sociale profondamente intrecciato e storicamente fluido.

Tensioni cicliche

La combinazione tra confini tracciati in modo arbitrario e la presenza di un patrimonio culturale comune continua a rappresentare una minaccia per la stabilità della regione. Le tensioni esplodono ciclicamente, come dimostrano gli scontri del 2011 intorno al tempio di Preah Vihear, che causarono almeno venti morti e lo sfollamento di migliaia di civili su entrambi i lati della frontiera.

Questi scontri avvennero nonostante, nel caso di Preah Vihear, una parziale soluzione giuridica era già stata raggiunta grazie all'intervento della Corte internazionale di giustizia che nel 1962 assegnò il tempio alla Cambogia.

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Tuttavia, la Thailandia non riconosce la giurisdizione della corte, e ha continuato a rivendicare il controllo di alcune aree circostanti, sostenendo che non tutte le porzioni territoriali erano state chiaramente attribuite. La disputa è riaffiorata nel 2013, quando la Corte precisò che anche il promontorio su cui sorge il tempio ricadeva sotto la sovranità cambogiana, ordinando il ritiro delle truppe thailandesi.

La situazione è ancora più delicata nel caso del tempio di Prasat Ta Muen Thom, che si trova oggi sotto controllo thailandese, nella provincia di Surin. Il sito sorge a breve distanza dalla cresta dei Dângrêk, che Phnom Penh considera il vero confine naturale tra i due Stati. A differenza del Preah Vihear, il Ta Muen Thom non è mai stato al centro di un pronunciamento formale da parte della Corte internazionale, lasciando la controversia aperta sia sul piano giuridico che su quello diplomatico.

In assenza di un accordo condiviso, e con due narrazioni storiche contrastanti, ogni episodio locale rischia di degenerare in una crisi più ampia.

Mine, droni e crisi politica

La crisi attuale tra Thailandia e Cambogia ha cominciato a prendere forma alla fine di maggio, quando un soldato cambogiano è rimasto ucciso durante uno scontro a fuoco con truppe thailandesi in una zona di confine contesa. Nelle settimane successive, una serie di esplosioni di mine antiuomo ha colpito pattuglie thailandesi, provocando feriti gravi. Il 16 luglio un soldato ha subito l’amputazione di una gamba, mentre il 23 luglio altri cinque militari sono rimasti feriti in un’esplosione analoga.

Questi episodi hanno contribuito ad acuire la tensione tra i due governi, che hanno rapidamente proceduto a un ridimensionamento delle relazioni diplomatiche, richiamando parte del proprio personale dalle ambasciate.

L’escalation è poi culminata negli ultimi scontri, i più violenti registrati tra Thailandia e Cambogia negli ultimi dieci anni. Le autorità di Bangkok accusano le forze cambogiane di aver lanciato razzi contro infrastrutture civili in almeno quattro province del nord-est, provocando la morte di undici civili e di un militare thailandese, oltre a decine di feriti. In risposta, l’esercito thailandese ha ordinato l’evacuazione delle comunità di confine e lanciato un’operazione militare che ha incluso l’impiego di caccia F-16. 

Entrambe le parti affermano di aver agito per legittima difesa, alimentando una spirale di accuse incrociate che rende difficile una ricostruzione attendibile degli eventi. La comunicazione istituzionale tra i due governi si è interrotta, e le ritorsioni si sono estese al piano economico e simbolico: Phnom Penh ha vietato l’importazione di alcuni prodotti agricoli thailandesi e bloccato la distribuzione di contenuti culturali provenienti da Bangkok. Mentre Bangkok ha minacciato di sospendere la fornitura di energia elettrica e connessione internet alle province cambogiane più vicine al confine e ha disposto la chiusura temporanea di diversi valichi, ostacolando il traffico transfrontaliero.

A complicare ulteriormente il quadro c’è la crisi politica interna in Thailandia, esplosa proprio dal riaccendersi delle tensioni con Phnom Penh. La prima ministra Paetongtarn Shinawatra – leader del partito Pheu Thai e figlia dell’ex premier Thaksin – è stata sospesa dall’incarico dalla Corte costituzionale thailndese dopo la diffusione di una telefonata privata con Hun Sen – ex primo ministro cambogiano e oggi figura chiave dietro le quinte del potere, nonché padre dell’attuale premier Hun Manet. Nella conversazione, Paetongtarn si mostrava eccessivamente conciliante verso il politico cambogiano, in un tentativo di mediazione che è stato subito bollato come una dimostrazione di debolezza dal fronte conservatore e militare thailandese, che resta profondamente influente nel panorama politico del paese.

La possibilità di nuovi scontri armati nelle prossime settimane è concreta, alimentata dall’assenza di un dialogo bilaterale strutturato e dalla militarizzazione progressiva della frontiera. Il governo thailandese, guidato in questa fase da un primo ministro ad interim, ha invitato la comunità internazionale a condannare le azioni di Phnom Penh, dichiarando che non ci saranno negoziazioni finché le ostilità non cesseranno completamente.

Le potenziali ripercussioni

Il conflitto rischia di avere conseguenze significative sull’intero equilibrio del Sud-est asiatico. Entrambi i paesi sono infatti membri dell’Asean, l’Associazione delle Nazioni del Sud-est asiatico, un blocco regionale nato nel 1967 per promuovere cooperazione economica e stabilità politica. Se da un lato l’Asean si è dimostrata un attore efficace nella liberalizzazione commerciale e nell’integrazione dei mercati, sul piano politico continua a soffrire di profonde divisioni interne e di un approccio fortemente improntato al principio di non ingerenza e neutralità negli affari interni dei membri. Questa impostazione ha limitato gravemente la capacità dell’organizzazione di affrontare crisi complesse.

A tutto ciò si sommano gli effetti delle politiche economiche statunitensi degli ultimi mesi: l’amministrazione Trump ha imposto una serie di dazi e restrizioni commerciali, nel tentativo di colpire la Cina e riequilibrare la propria bilancia commerciale, che hanno penalizzato diversi paesi dell’ASEAN, accusati di fungere da tramite per l’export cinese nel tentativo di aggirare le sanzioni americane.

In questo contesto, la Cina osserva con cautela l’evolversi delle tensioni. Da tempo Pechino investe nella stabilità del Sud-est asiatico, ritenuta un’area cruciale per la sicurezza delle proprie catene di approvvigionamento e per l’accesso ai mercati globali. Pechino ha espresso «profonda preoccupazione» e si è dichiarata disposto a favorire il dialogo tra le parti.

Entrambi i paesi coinvolti infatti mantengono rapporti stretti con la Cina: Phnom Penh è da anni uno dei partner più fedeli di Pechino nella regione, mentre Bangkok, generalmente più vicina agli Stati Uniti, ha progressivamente ampliato i propri legami economici e strategici con il gigante asiatico.

In un momento in cui gli Stati Uniti faticano a proporre una strategia coerente per il Sud-est asiatico, la crisi di confine offre a Pechino l’opportunità diplomatica significativa di porsi come mediatore, rafforzando ulteriormente la propria influenza nel cuore dell’Asean.

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