È la più grande prigione dell’America Latina, costruita dal presidente Bukele, che ha fatto del sistema carcerario un business e ora ne sta aumentando la capienza anche su richiesta degli Usa. Dentro ci finiscono richiedenti asilo di tutte le nazionalità. Tra torture, abusi e violazioni dei diritti umani, come dimostrano le testimonianze di chi ci è stato
Tra corridoi e cortili, nelle celle – quelle collettive e d'isolamento –, la sicurezza è massima. Anzi, come riferisce la dicitura ufficiale che cataloga le carceri nel mondo, quella nella struttura ciclopica di Tecoluca è “supermax”, super massima. La chiamano tutti Cecot, acronimo meno spaventoso di Centro de Confinamiento del Terrorismo.
È la più grande struttura carceraria dell'America Latina, si trova in El Salvador e ha una capienza massima di 40mila detenuti. Qualcuno trova sbagliato chiamarla prigione: è un gulag – riferiscono ex detenuti ed ong – dove si infliggono torture fisiche e psicologiche, si compiono abusi fisici e sessuali. Dove i secondini istigano al suicidio e dove i diritti umani vengono sistematicamente violati.
Un pezzo della ciclopica Cecot si vede alle spalle di Kristi Noem, segretaria della Sicurezza Nazionale degli Stati Uniti, in un video, fazioso e propagandistico, diventato virale qualche mese fa: alle sue spalle ci sono uomini tatuati in volto, in primo piano c'è lei, trucco pesante e cappellino blu, che assicura la vittoria nella guerra dichiarata da Trump all'immigrazione.
Senza giusto processo o senza alcun processo, talvolta senza nemmeno controlli, adesso stanno finendo nell'abisso di Cecot migranti e richiedenti asilo prelevati per le strade statunitensi dagli agenti dell'Ice sguinzagliati dalla squadra repubblicana.
Il fenomeno Bukele
Cecot è stata costruita nel 2022 ed è diventata operativa nel 2023 per ordine del presidente Nayib Bukele, che, con una vertiginosa percentuale di preferenze, ha rivinto le elezioni l'anno scorso. Ora il capo di Stato più giovane della storia dell'America Latina (lo è diventato nel 2021, quando è stato eletto a 39 anni per la prima volta) vuole aumentare l'estensione e capienza della colonia penitenziaria per fare più affari con Washington.
Bukele è almeno due cose: un fenomeno e un metodo. Il fenomeno Bukele sta diventando sempre meno misterioso ed enigmatico, almeno da quando il presidente si è auto-proclamato «il dittatore più cool del mondo». Amante di selfie e outfit hipster, figlio di un musulmano di Betlemme, è stato definito dal suo ex avvocato, poi diventato suo avversario, come «un adolescente al potere, incapace di sostenere una conversazione sulle questioni più importanti senza controllare costantemente il suo cellulare».
Ma i suoi picchi di popolarità sono in aumento in tutta l'America del Sud per quello che tutti ormai chiamano il “metodo Bukele”: la repressione capillare della criminalità che promette. Bukele ha incontrato mesi fa Marco Rubio e gli ha proposto di ospitare nelle sue prigioni i migranti di ogni nazionalità che Washington voleva deportare: il segretario di Stato americano l'ha definito «un atto di straordinaria amicizia» e ha accettato «l'accordo senza precedenti nel mondo». E il salvadoregno ne era ben felice: lui incarcera per l'America, ma a pagamento.
Meno pubblicizzato è stato un altro accordo di cooperazione che ha strappato Bukele a Rubio: quello sull'energia nucleare civile. Secondo Alexandra Hill Tinoco, a capo del dicastero degli Esteri salvadoregno, gli americani forniranno «tutti gli strumenti necessari» e «guideranno gli aspetti tecnici e normativi di questa transizione senza precedenti».
Ad aprile scorso è stato lo stesso Trump a esortare Bukele, durante la sua ultima visita alla Casa Bianca, a costruire più mega-prigioni simili a Cecot dove il repubblicano vuole spedire quelli che ha definisce «mostri» e «terroristi». In quelle celle, in un futuro prossimo, potrebbero finire anche gli “homegrown criminal”, criminali statunitensi, le «bad people, really bad people», i cattivi, tanto cattivi, come li chiama Trump, che vuole spedire oltre confine anche i cittadini americani, nonostante le deportazioni di statunitensi siano proibite dalla stessa legge degli Stati Uniti.
Il cimitero dei morti viventi
Intanto grazie all'Alien Enemies Act del 1798, che consente la deportazione di individui di “nazioni nemiche” senza seguire le normali procedure standard, gli Usa hanno spedito a Cecot a marzo scorso 252 venezuelani prelevati dall'Ice: di loro, solo sette avevano precedenti criminali. Quando sono stati liberati dopo 125 giorni di prigionia, in uno scambio prigionieri tra Washington e Caracas avvenuto il 18 luglio scorso, ai giornalisti che li hanno intervistati hanno descritto le pratiche applicate nel “cimitero dei morti viventi” di Cecot.
Venivano denudati, picchiati e infilati in celle-alveari dove i letti a castello a più strati raggiungevano il soffitto, ma né di giorno, né di notte si dormiva per le urla degli altri detenuti pestati. Chi ha tentato lo sciopero della fame è stato percosso più forte di prima o colpito con proiettili di gomma. Andry Romero, un richiedente asilo omosessuale 32enne, è stato messo in isolamento dove è stato violentato da un gruppo di guardie.
Venivano manganellati talmente tanto, ha detto Arturo Suarez, che l'unica arma che gli era rimasta contro la violenza era la loro stessa vita: per far smettere i secondini, l'unica minaccia che funzionava era intimare che si sarebbero impiccati con le lenzuola.
Il caso Kilmar Garcia
Un caso più famoso degli altri è sicuramente quello di Kilmar Garcia, marito e padre di cittadini americani. Quando è stato deportato per un errore giudiziario, è stato accusato dalla squadra repubblicana di essere un membro della gang Ms-13. Garcia era invece scappato in America quando aveva 16 anni proprio per evitare la violenza delle gang in El Salvador: per questo, un giudice statunitense nel 2019, gli aveva garantito il diritto di poter vivere e lavorare in Usa.
Notizie degli abusi sono arrivate anche al Dipartimento per la sicurezza interna di Washington, dove hanno deciso di commentarli solo così: i venezuelani «non erano cittadini statunitensi né erano sotto la giurisdizione degli Stati Uniti».
© Riproduzione riservata



