Non so chi sia, ma devono avere un bravo regista, e lo tengono segreto. Qualcuno del calibro di Oliver Stone o di Ridley Scott, o di Martin Scorsese. E se non ce l’hanno, doppi complimenti. Sto parlando delle audizioni trasmesse in diretta televisiva dalla Camera sull’assalto a Capitol Hill del 6 gennaio 2021, di cui ieri sera è andata in onda l’ultima puntata estiva. Due ore e mezzo di grande dramma cinematografico, non un momento di caduta di tensione, tre colpi magistrali, di quelli che ti fanno sobbalzare sulla poltrona.

Nelle precedenti puntate, si erano visti nel dettaglio i preparativi politici e organizzativi che hanno portato alla “giornata fatale” per la democrazia americana, come così oramai viene chiamata. L’impianto narrativo è da tragedia greca: si presentano i personaggi, c’è un presidente – l’ottimo Ben Johnson che viene dal profondo Mississippi e che sembra uscito da un film sulla guerra civile – e poi gli attori principali, ovvero i deputati che conducono l’inchiesta (ognuno dei quali sembra destinato a un futuro politico), che, come fa Virgilio con Dante, spiegano, accompagnano, rispondono alle domande, e, in pratica, fanno capire che Trump dovrebbe essere messo in galera.

Ma la forza dello spettacolo è data dal mix di filmati esclusivi, testimonianze, clip, a cui si mischiano le testimonianze in diretta di simboli della giornata tragica. E così abbiamo visto Trump fuori di testa per aver perso le elezioni, le tappe del suo deliro, le riunioni segrete in cui un cerchio magico convince il vecchio presidente che le macchine per conteggiare i voti sono state truccate in Venezuela, che hanno le liste dei morti che hanno votato, le prove dei trucchi commessi in Georgia o nel Michigan.

I tentativi di dirottare il risultato elettorale

House Select Committee via AP

Trump è un vero boccalone, si convince che ha vinto davvero, si attacca al telefono per ordinare di ricontare, di truffare; supplica, implora, ordina. Il “Re Lear di Mar a Lago”, lo chiamava allora il New York Post di Rupert Murdoch, per fargli capire che doveva smettere, ma Trump due cose certamente non ha: cultura shakesperiana e senso dell’umorismo.

Ed ecco comparire una combriccola di avvocaticchi, generali, vecchi arnesi, che convincono il presidente che non tutto è perduto. Gli spiegano che il vicepresidente può rifiutarsi di certificare la vittoria di Biden, che c’è un precedente nel 1887. E così – nella follia – si arriva alla preparazione della grande manifestazione del 6 gennaio, quando, con una cerimonia che affonda le sue radici nei tempi, con grande pompa il vice presidente Mike Pence riceve i risultati dei collegi elettorali dei singoli stati e proclama eletti i nuovi presidenti e vice. Sarà lì che la folla si prenderà la rivincita.

Bene, tutto questo si è visto nelle puntate precedenti: gli avvocaticchi che convincono il vecchio che si può fare, lui che tenta di convincere Pence a farlo e l’altro che gli risponde che non ci pensa neanche, l’organizzazione della grande manifestazione in cui lo stesso presidente arringa una folla armata di alcune migliaia di persone a marciare sul Campidoglio per “convincere” Pence a fare il suo dovere.

E lui li assicura che marcerà con loro! E infatti si mette nella limousine dei servizi segreti e ordina: «Al Campidoglio!». E quando il capo dei servizi, John Ornato, gli dice di no, Trump non esita ad afferrare il volante e ci vuole del bello e del buono a riportarlo alla Casa Bianca. Qui l’audizione di ieri ha aggiunto altri dettagli: lo scontro, anche fisico, tra servizi segreti e Trump nella limousine sarebbe durato ben 45 minuti, in cui il convoglio presidenziale rimase fermo. Peccato che tutte le comunicazioni dei servizi su questo periodo siano andate perse…

Il gran finale

Ieri, abbiamo visto il grande finale al rallentatore: tutto quello che ha fatto il presidente, da quando i servizi lo hanno riportato suo malgrado a casa. Si è rintanato nella sala da pranzo attigua allo studio Ovale – niente di che, un grande tavolo di noce in stile proto coloniale, simpaticamente frugale – solo, seduto di fronte a un grande schermo della tv Fox (la sua tv) per ben 187 minuti in cui la folla da lui organizzata recitava il copione che lui aveva scritto. Ovvero era entrata nel palazzo e aveva cercato Pence per impiccarlo.

E dunque, cosa ha fatto Trump per più di tre ore? Niente. Nessuno per 187 minuti riuscì a comunicare con lui, il fotografo ufficiale della Casa Bianca venne allontanato e non ci sono negli archivi della Casa Bianca notizie di quanto abbia fatto il presidente in quelle tre ore, chi abbia visto o con chi abbia parlato; e questo mentre una massa crescente di persone lo supplicava – attraverso la tv che lui stava guardando! – di intervenire per fermare la teppa che lui aveva istigato, di chiamare l’esercito, la guardia nazionale, di lanciare un messaggio televisivo (lo avrebbe potuto fare da una postazione sempre pronta attigua allo studio Ovale, camminando per soli 60 secondi).

Niente. Non ha fatto niente per più di tre ore mentre guardava la televisione che mostrava il massacro in diretta; ed era in quel momento il Capo supremo delle Forze Armate, il garante della Costituzione, dell’integrità e della sicurezza degli Stati Uniti d’America.

E qui, la regia del “6 gennaio”, ha dato il suo meglio; se è vero che non c’è nulla che piaccia di più a noi spettatori che essere la mosca sul muro che osserva Hitler nel bunker, Napoleone a Waterloo, la notte del Gran Consiglio, la morte di Stalin, il bacio tra Andreotti e Riina – la ricostruzione del Re Lear alla Casa Bianca è stata all’altezza, anche perché il montaggio intervallava il Niente del presidente, con le registrazioni audio – mai sentite prima – degli uomini dei servizi a protezione di Pence (come i passeggeri sull’aereo dell’11 settembre, come i ragazzi intrappolati al Bataclan), che facevano telefonate ai loro cari, prevedendo la loro morte prossima, perché i rivoltosi trumpiani erano arrivati a pochi metri all’uscio.

Il piano

Questo segmento è stato il più agghiacciante, anche perché in quei minuti Trump si stava informando, per telefono, sull’attuazione del suo piano – l’uccisione del suo vice, per poi poter dichiarare la legge marziale –; certo non fece nulla per fermare i potenziali assassini. Anzi, twittò che Pence se l’era meritato. È il famoso tweet delle 2,24 del pomeriggio che lo inchioderà se mai ci sarà un processo contro di lui. E poi – ma solo dopo aver appreso dalla televisione – che l’esercito (non chiamato da lui) aveva finalmente circondato il palazzo, arriverà la richiesta ai suoi “amati” di abbandonare l’edificio e di «andare in pace».

Difficile sottrarsi alla tensione di quella ricostruzione, che gli americani hanno visto ieri per la prima volta con filmati inediti e audio drammatici. Immagino che milioni di spettatori abbiano sbarrato gli occhi.

Colpo di scena finale della puntata. Trump, dopo essere stato costretto a ordinare ai suoi di tornare a casa in pace con un video girato nel giardino delle rose della Casa Bianca, si ritira nei suoi appartamenti. Ricompare il 7 mattina, per registrare un commento sugli avvenimenti. La commissione 6 gennaio è riuscita a farsi consegnare il video di quell’intervento, ed è grottesco. Trump prova più volte a leggere un testo scritto, ma non ci riesce; anzi, si rifiuta, per tre volte, di pronunciare la dichiarazione di sconfitta elettorale. È nervoso, lo accontentano, non andrà in onda. Ma, purtroppo per lui, il “girato” rimane e lo perseguiterà per gli anni che gli rimangono la da vivere.

Mentre finisco questo articolo, le scene che abbiamo visto stanno rimbalzando su tutti i social e sulle televisioni; il New Tork Times ha un titolo delle grandi occasioni, spiegando che il comitato ha provato la “dereliction of duty” del presidente Donald Trump, che noi, forse sbagliando le sfumature, potremmo tradurre con «la vergognosa mancanza di senso del dovere» di un presidente in carica, qualcosa che è molto vicina al tradimento della Costituzione e, se si arrivasse a un’azione penale, qualcosa come complicità in insurrezione, omicidio e strage.

Nessuno, francamente, sa che cosa succederà ora. Voci insistenti dicono che Trump, proprio per rilanciare a un attacco così potente, abbia deciso di annunciare subito la sua candidatura per il 2024. Ma ormai non sarebbe più il solo, nel partito repubblicano su cui ha ormai diminuito la presa, sta crescendo la stella di Ron De Sanctis, il governatore della Florida, uno che definire di estrema destra è poco.

L’orologio fa tic tic e le elezioni di novembre si avvicinano. Il comitato Sei Gennaio si riproporrà a settembre, forse il ministro di giustizia incriminerà Trump. Intanto il presidente Joe Biden ha preso il Covid. Il prezzo della benzina, però, è finalmente diminuito.

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