Negli ultimi due decenni un interrogativo inquietante s’è fatto strada nel dibattito pubblico oltreché nelle coscienze di cittadine e cittadini degli stati liberali: come cambia una forma di vita? Questione non da poco, se è vero che con questo lemma dal comprovato pedigree filosofico s’intende qualcosa di molto semplice, vale a dire come le persone costruiscono la loro esistenza individuale e collettiva nel tessuto di valori e credenze che vi fanno da sfondo.

E ci s’è chiesti, con insistenza un po’ nevrotica, se le mascherine o il distanziamento sociale potessero incidere sul modo in cui viviamo sino a renderci altro da quel che eravamo sino a poco tempo prima. Chi scrive crede che restrizioni temporanee delle libertà – che certo devono sempre godere del crisma della legalità, ma questo è altro tema – non siano in grado di modificare una forma di vita e che anzi possano favorire lo sviluppo di energie tutte rivolte al dissenso e alla contestazione. Timori mal risposti, quindi.

Un film immutabile

Jeffrey Collins (Foto AP)

Eppure, una forma di vita può essere cambiata e in modo drastico, incisivo, duraturo con uno strumentario che non convoca paura o coartazione, ma conta sul lavorio carsico della diffusione di nuovi valori e nuove credenze. La strategia di alcuni costituzionalisti statunitensi, alfieri del cosiddetto costituzionalismo del bene comune, è esplicita e non indugia in litoti: per produrre una comunità compatta, solida, omogenea, occorre tutelare una serie molto ristretta e coerente di valori (ad esempio, matrimonio eterosessuale, famiglia tradizionale, solidarietà sociale, responsabilità collettiva), che limitino le spinte individualistiche delle società neoliberali e orientino in modo univoco le forme di socializzazione.

Un’iniezione potentissima di valori tradizionali, che la Costituzione deve incorporare e rendere indisponibili al cambiamento, e a cui è demandata la formazione delle coscienze e la ricostruzione della forma di vita dei tempi andati. Ecco: crediamo che Dobbs v. Jackson Women’s Health Organization, numero 19-1392, 597 U.S. (2022), la sentenza epocale che afferma l’inesistenza del diritto all’aborto negli Stati Uniti e ribalta altre sentenze, ahinoi non più epocali, si inscriva in questa gravissima strategia di restrizione del pluralismo. E questo è un problema molto serio, oltreché grave, al di là di ogni differenza di opinione sull’inizio della vita, persino al di là del diritto delle donne all’aborto, cui pur teniamo massimamente.

E la Corte Suprema fa questo con uno sfacciato ancoramento alla storia, in barba – o persino contro, dati i toni sprezzanti, talora sarcastici, dell’opinione di maggioranza – alle evoluzioni di una società che della storia, per come intesa dalla maggioranza della Corte, non sa che farsene. Per i cinque giudici più uno – opinione della maggioranza, associata alla più morbida concurring opinion del Chief Justice Roberts – le sentenze che riconoscevano il diritto all’aborto risulterebbero «senza supporto nella storia o nei precedenti rilevanti».

La progettazione del futuro, in sostanza ci si dice, trova un limite in ciò che il passato mette a disposizione: rivedere le credenze è possibile solo se si tutelano le credenze che si vogliono rivedere. Un pasticcio che condanna un’intera società a un copione già scritto, come se ogni nuovo film dovesse provare di essere un remake di un film originario, atavico, immutabile. E a quel film si dà valore sopra ogni cosa perché lo si tratta come originario, atavico, immutabile.

Sia chiaro: qui non c’è in ballo solamente il dibattito più che decennale su come interpretare la Costituzione. Non si tratta della questione, certo non solo tecnica ma di minore portata, di capire se la Carta debba essere letta alla sola luce dell’intenzione di chi l’ha scritta quando intendeva dare un indirizzo alla creanda collettività (questa, a grandi linee, l’interpretazione originalista cui si ispira la maggioranza espressa dalla Corte).

Valori impermeabili

Jacquelyn Martin (Foto AP)

C’è molto di più. C’è il tentativo di ridurre i limiti della rivedibilità di un progetto di vita comune assicurando a un nucleo di valori presunti inossidabili una posizione di impermeabilità, che li trasformi gradualmente (ma nemmeno troppo) nei limiti della pensabilità: aborto, matrimonio omosessuale, eguaglianza di genere, oltre al sacrosanto diritto di non volersi sentir parte di alcun progetto collettivo, devono diventare degli “impensabili”, tornare nell’antro angusto delle distorsioni che turbano l’ordinata riproduzione di una forma di vita storicamente consolidatasi.

Si tratta di una sentenza letteralmente epocale per tanti versi. Basti pensare che si è di fronte alla più estesa cancellazione di diritti della storia americana, diritti in passato introdotti, e non meramente difesi, dalla stessa Corte. Anzitutto per questo motivo sarebbe un errore interpretare la sentenza in oggetto come fosse il semplice esito di una diversa composizione delle maggioranze in seno alla Corte e rispondesse dunque a una fisiologica e salutare alternanza degli orientamenti della stessa su temi e questioni politicamente rilevanti.

Chi si sorprende o addirittura scandalizza per simili dinamiche ha probabilmente troppa poca fiducia nella democrazia o forse una visione angelicata degli orientamenti della giurisprudenza. La questione si pone, di contro, su un piano ben diverso, più minaccioso e gravido di conseguenze per la stessa tenuta degli assetti democratici (non solo statunitensi): non quali decisioni si prendono, ma come si prendono.

Una strategia irresponsabile

Ben Margot (Foto AP)

In questo senso la strategia, costituzionalmente del tutto legittima ma politicamente del tutto irresponsabile, è chiarissima: rifiutare qualsiasi forma di compromesso e trincerarsi in una ridotta costituzionale che deneghi ogni mutamento politico-sociale (anzitutto in fatto di nuove soggettività e nuove esigenze).

Una strategia, peraltro apertamente rivendicata, che fa leva sull’orientamento originalista sopra richiamato, per il quale i diritti non esplicitamente previsti dal dettato della Carta non hanno rango costituzionale (o ne hanno uno ben più contestabile, che una maggioranza insofferente avrà agio di derubricare a forzosa inserzione).

In un passaggio eloquente, il parere di maggioranza della Corte invita la Corte stessa «a guardarsi dalla naturale tendenza umana a confondere quanto il Quattordicesimo emendamento salvaguarda con le appassionate opinioni della stessa Corte a riguardo della libertà di cui gli americani dovrebbero godere».

Dal truismo per cui i Costituenti non avevano di fronte questioni venutesi formando solo in seguito a mutamenti storici non prevedibili, si deriva non già la necessità di un’interpretazione evolutiva ma il rifiuto di qualsiasi estensione della lista dei diritti, in quanto, appunto, originariamente non contemplati.

Si ha qui a che fare con uno dei più scoperti e radicali casi di politicizzazione del diritto, attuata tramite un paradossale ribaltamento dei ruoli. L’accusa di politicizzare la virginea materia giuridica viene infatti rivolta dalla Corte a chiunque tenti di far passare per costituzionalmente opportune idiosincratiche preferenze personali o, ancor peggio, interessi di parte.

Di contro a un simile tentativo di piegare la Costituzione alle beghe arcobaleno della bassa cucina politica, la Corte si autoascrive il compito di difendere l’originaria ispirazione della stessa da ogni forma di contaminazione. La Corte – nelle sue componenti più sane, se ne evince giocoforza – come guardiana della Costituzione, e anzitutto della sua purezza giuridica contro ogni assalto all’arma bianca da parte di fazioni politiche poco interessate al bene comune, garantito e finanche incarnato dalla Costituzione stessa.

Ma il grado di politicità di un simile orientamento è manifesto, e chiaramente messo in luce nell’opinione dissenziente della minoranza: a essere in questione è appunto il metodo con cui si prendono decisioni (specie) su questioni altamente divisive, ben più che il merito. È il reciso e fermissimo rifiuto, espresso dalla maggioranza della Corte, di impegnarsi a cercare un punto di equilibrio e un compromesso tra i valori in gioco a essere altamente e rovinosamente carico di una politicità che priva la mediazione giuridica di ogni potenziale compositivo rispetto alle diverse posizioni in campo.

È un simile radicalismo a determinare il serio rischio di una nuova secessione, di un discredito perdurante del prestigio delle istituzioni democratiche e di una diffusa radicalizzazione del conflitto sociale. È tale difesa, sia giuridico-costituzionale sia politico- sociale, di un insieme ristretto di pratiche e valori quale scrigno identitariamente sbalzato di una comunità a rappresentare la vera urgenza del momento, altro che mascherine e carte verdi. Prima che l’incendio divampi, ancora più devastante, sul suolo europeo.

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