Il 1° dicembre 1991 quasi 32 milioni di ucraini si recarono alle urne, chiamati a confermare tramite referendum popolare la dichiarazione di indipendenza proclamata dal parlamento il 24 agosto precedente; oltre il 90 per cento di essi si espresse a favore. Tale evento segnava, al tempo stesso, l’esito di un lungo cammino e l’inizio di un faticoso travaglio di costruzione di uno stato nazionale sulle ceneri di quell’Ucraina che era stata una componente di primo piano dell’Urss. Il dibattito storiografico sul peso dell’Ucraina negli equilibri sovietici si intreccia a quello più ampio circa il ruolo giocato dal fattore nazionale e dagli etnonazionalismi nella complessa crisi che portò alla dissoluzione dell’Urss. Certamente, l’Ucraina non era una qualunque repubblica sovietica tra le altre, per i particolari legami storici, culturali e, non ultimi, religiosi, che la connettevano alla Russia, come pure per l’incidenza della sua economia sul bilancio dell’Unione.

«Senza l’Ucraina non ci sarà l’Unione e senza l’Unione non ci sarà l’Ucraina»: tale era l’opinione di Michail Gorbaciov all’indomani della proclamazione dell’indipendenza di Kiev. Era altresì convinzione del primo e ultimo presidente dell’Urss che fuori dall’ombrello sovietico l’Ucraina non avrebbe avuto futuro, ma si sarebbe divisa lungo linee di faglia etniche.

Il peso delle eredità

I territori dell’Ucraina sovietica erano effettivamente connotati da specificità regionali, frutto di vicende storiche divergenti, contaminazioni culturali, spostamenti di confine, transizioni di popoli. Tale realtà era il lascito di un passato in cui le varie parti dell’odierna Ucraina erano appartenute a stati plurinazionali diversi: la confederazione polacco-lituana, gli imperi asburgico, ottomano e zarista e, infine, l’Urss. Tale molteplicità di esperienze storiche fu inquadrata in una cornice unitaria soltanto nel corso del periodo sovietico. Mai era esistito uno stato ucraino con territori vasti quanto quelli compresi all’interno della Repubblica socialista sovietica ucraina, di cui l’Ucraina post-sovietica avrebbe ereditato sia i territori, sia i confini. L’eredità sovietica fu decisiva per lo stato ucraino divenuto indipendente nel 1991, che fu in tal senso una «novità storica», nata dalla guerra civile, realizzata in larga parte da Stalin con la seconda guerra mondiale e completata da Chruščëv nel 1954 con l’annessione della Crimea. In altre parole, se le fondamenta della formazione dell’idea di nazione ucraina furono poste dal movimento nazionale ottocentesco e novecentesco, anche l’esperienza sovietica, pur con tutte le sue contraddizioni e aporie, contribuì alla sua costruzione.

Lo fece innanzitutto definendo i confini dell’Ucraina, ma anche attraverso le politiche dell’etnofederalismo sovietico, che conferirono alla repubblica una connotazione nazionale su base etnica, individuata secondo il criterio linguistico. Il processo di ucrainizzazione della Repubblica socialista sovietica ucraina si combinò, almeno fino agli inizi degli anni Trenta, con la cooptazione delle élite nazionali nel governo e nell’amministrazione locali, una prassi che concorse a plasmare una dirigenza dalla «doppia lealtà», fedele a Mosca, ma sensibile alle istanze nazionali. Anche quando la dirigenza sovietica pose fine a questa politica, virando verso una maggiore centralizzazione e omogeneizzazione, la corrente del comunismo nazionale sarebbe rimasta come un fenomeno carsico all’interno del Partito comunista ucraino.

Leonid Kravčuk, il responsabile per l’ideologia del Partito comunista dell’Ucraina divenuto primo presidente dell’Ucraina indipendente, può essere considerato l’ultimo rappresentante di tale tradizione di comunismo nazionale.

Il mito delle due Ucraine

La complessità della vicenda ucraina, il suo pluralismo «genetico», la sua natura composita hanno reso l’itinerario di costruzione dello stato nazionale tortuoso e travagliato. Dal punto di vista storiografico, è stato problematico utilizzare per l’Ucraina il modello delle storie nazionali su cui si è formata la storiografia contemporanea tra Ottocento e Novecento. A partire dagli anni Novanta storici e politologi si sono messi alla ricerca di una chiave interpretativa per spiegare il carattere poliedrico dell’Ucraina. Alcuni hanno ricondotto la pluralità alla classica contrapposizione tra i territori della riva destra e quelli della riva sinistra del fiume Dnipro, riducendo la complessità a un rapporto dicotomico tra l’ovest e l’est, come fece il politologo americano Samuel Huntington nel celebre The Clash of Civilizations, con lo schema di «un paese diviso, patria di due distinte culture»: una occidentale, cattolica di rito bizantino, ucrainofona e nazionalista; l’altra orientale, ortodossa, russofona e orientata verso Mosca.

Quello che è stato definito il «mito delle due Ucraine» non rende però ragione della complessità culturale, linguistica, demografica e religiosa che contraddistingue lo spazio ucraino. Negli ultimi decenni alcuni studiosi si sono pertanto interrogati sul ruolo giocato dal fattore regionale nella storia ucraina. Si è parlato a tale proposito di «regionalismo», una categoria che, nonostante la sua indeterminatezza e ambiguità, ha inserito nuovi elementi nel dibattito sul processo di formazione degli stati nazionali, interagendo con un’altra categoria scivolosa, quella di nazionalismo. Non si tratta però di contrapporre nazione e regione, ambedue risultanti da processi storici dinamici, quanto piuttosto di cogliere la complessità delle appartenenze territoriali e le loro mutazioni nel tempo. Negli studi sull’Ucraina l’approccio regionale ha consentito di superare la rigidità dello schema binario ovest/est, di entrare nelle peculiarità di ogni territorio e di mettere in risalto l’innegabile specificità di questo caso rispetto ad altre realtà del mondo slavo: il fatto che l’Ucraina sia stata nella sua storia «alla frontiera» (tale il significato del toponimo Ukraïna), una particolarità che va inquadrata, tuttavia, nelle stratificazioni secolari di un territorio policromo, non omogeneo né dal punto di vista culturale né da quelli linguistico e religioso.

La frontiera ucraina è stata più «attraversamento» che rigido confine, più «spazio di transizione» che «linea di divisione». Inoltre, non ha costituito un limite statico, segnato una volta per sempre, ma ha conosciuto avanzamenti e arretramenti che le hanno conferito un carattere mobile, permeabile, liquido. Sulla frontiera ucraina culture, fedi e lingue si sono certamente contrapposte, ma si sono anche incontrate e contaminate, hanno coesistito e coabitato.

Una costruzione incompiuta

È indubbio che il processo di perestrojka in Ucraina abbia favorito l’emersione di un modello identitario «forte», connotato in senso nazionale, di cui furono portatori alcuni ambienti intellettuali delle grandi città, in particolare di Leopoli e Kiev. Fu in quel tornante storico che la Galizia ex asburgica ed ex polacca emerse con tutto il suo potenziale di insubordinazione al potere sovietico, recepito come oppressione dei «russi» nei confronti della «nazione ucraina», della sua lingua e della sua cultura. Il nazionalismo che si impose negli anni della perestrojka in questa regione è stato però giustamente definito una «fede minoritaria», nel senso che non coinvolse la maggioranza della popolazione dell’Ucraina. Se esso, da una parte, ebbe senz’altro rilevanza, dall’altra non risulta sufficiente a spiegare tutto della vicenda ucraina contemporanea. Altri fattori storici di lungo periodo, primo fra tutti il rapporto tra stato e società, giocarono un ruolo altrettanto importante.

Questo volume si concentra sulla delicata transizione, avviata dalla perestrojka, tra l’Ucraina sovietica e quella indipendente, un passaggio favorito dall’elezione di Gorbaciov a segretario generale del Pcus e approdato alla presidenza Kravčuk, conclusasi nel luglio 1994. Fu in tale periodo che furono avviati i processi di nation-building e state-building della «nuova Ucraina», in cui la leadership post-sovietica (in maggioranza, ex comunista) si trovò dinnanzi a scelte cruciali per il futuro del paese: se dare al nuovo stato una connotazione etno-nazionale o sovranazionale; se promuovere un’identità etnica o civica; se intraprendere politiche di omologazione linguistica e culturale (e, per certi versi, anche religiosa) o se, viceversa, tenere insieme le differenze. Al tempo stesso, si trattava di intraprendere riforme strutturali, politiche ed economiche, ma pure di decidere quale ordine di rapporti stabilire con una Russia a sua volta in cerca di orientamento, non soltanto stretta tra recessione economica e incertezza politica, ma pure in una profonda crisi di identità per il drastico ridimensionamento della propria influenza sugli equilibri geopolitici globali.

Tali sfide non si sarebbero esaurite con la presidenza degli anni 1991-1994; anzi furono l’indecisione sulla via da imboccare, la riluttanza a perseguire riforme rigorose, le ambiguità e la mancanza di chiarezza su quale stato si volesse costruire a rendere fragile il progetto della «nuova Ucraina». I nodi controversi, rimasti irrisolti, di tale costruzione hanno segnato la storia di questi ultimi trent’anni: la trasformazione delle élite regionali in oligarchie con la conseguente commistione tra potere politico e potere economico; la dinamica ambivalente tra regionalismo e nazionalismo; la questione linguistica e quella religiosa; il rapporto contrastato con le eredità storiche; le relazioni con la Russia e con l’Europa. Sono problematiche tuttora aperte, mentre infuria una guerra i cui esiti sono difficili da prevedere, ma che senza dubbio rappresenta un passaggio cruciale per la costruzione di un’Ucraina futura ancora difficile da immaginare.


La costruzione dell’Ucraina contemporanea. Una storia complessa (Il Mulino 2023, pp. 576, euro 38) è l’ultimo libro di Simona Merlo

© Riproduzione riservata