Una delle grandi incognite legate alla guerra russa contro l’Ucraina riguarda il ruolo che Mosca occuperà in futuro nello spazio post sovietico. Negli anni immediatamente precedenti all’invasione su larga scala, la Russia aveva adottato una politica tutto sommato misurata nei confronti degli altri paesi della regione.

Di fronte a proteste in Bielorussia, un colpo di stato in Kirghizistan, la vittoria della filoeuropea Maia Sandu in Moldavia, una rivoluzione democratica in Armenia, la seconda guerra in Nagorno-Karabakh e disordini in Kazakistan, la Russia ha sapientemente (e spesso cinicamente) difeso i propri interessi, appoggiando sì i propri alleati (ad esempio, il presidente bielorusso Lukashenko), ma facendolo attraverso mezzi esclusivamente politici (in apparenza) o simulando una parvenza di multilateralismo, come nel caso dell’intervento della Organizzazione colletiva del trattato di sicurezza (Csto) in Kazakistan nel gennaio del 2022.

Addirittura, nel 2020, l’allora direttore del Carnegie Moscow Center, Dmitry Trenin, allora considerato un liberale e una delle massime autorità nel campo dell’analisi della politica estera russa, affermò: «Non ci sarà una nuova edizione dell’impero».

Due anni dopo, il Carnegie Moscow Center è stato chiuso dal governo russo, il suo ex direttore è ormai considerato a tutti gli effetti un sostenitore di Putin e della sua guerra e la Russia è sempre più vista dai suoi vicini (come dalla gran maggioranza dei paesi occidentali) come un paese neoimperialista in seguito all’invasione del suo vicino.

Se da un lato al momento è ancora difficile prevedere l’esito dei combattimenti e, quindi, il loro impatto sull’immagine della Russia, dall’altro è lecito aspettarsi che questa guerra porterà ad un ridimensionamento del ruolo di Mosca da un punto di vista politico, economico e sociale, e ad una possibile fine della sua egemonia regionale.

Senza più sicurezza

Per quanto oggi si tenda a percepire la Russia come un fattore di instabilità regionale, per decenni dalla fine dell’Unione sovietica, Mosca è stata per molti dei suoi vicini un “security provider”. Il suo ruolo come potenza militare più forte della regione (spesso considerata il secondo esercito al mondo dopo gli Stati uniti), come esportatrice di armi (seconda al mondo, sempre dopo Washington) e come “padre padrone” all’interno della Csto ne faceva, al contrario, un fattore di stabilità dal punto di vista di diversi paesi nel Caucaso meridionale e Asia centrale alle prese con guerre intraregionali e elementi di rischio come l’Afghanistan.

Molti di questi stati avevano già storto il naso di fronte all’intervento russo in Georgia nel 2008 e all’annessione della Crimea nel 2014, ma nulla come questa guerra e la sua palese violazione delle norme internazionali ha scioccato i governi e alcuni segmenti dell’opinione pubblica nella regione, minando la loro fiducia nella Russia.

Anche se la Russia dipinge la guerra contro l’Ucraina come una lotta esistenziale contro il neocolonialismo occidentale – strizzando l’occhio ai paesi del sud del mondo che condividono sentimenti antioccidentali alla luce del loro passato coloniale – l’«operazione militare speciale» del Cremlino ha di fatto riacceso i discorsi sull’imperialismo russo, sia all’interno della Russia sia nei confronti dei suoi vicini.

La resistenza ucraina supportata dalle armi e dall’intelligence occidentale, poi, ha compromesso l’immagine di potenza militare. “Distratta” in Ucraina, la Russia non sembra più in grado di fungere da garante della sicurezza regionale per molti dei regimi locali.

Dinamiche che cambiano

Questa dinamica è più evidente nel Caucaso meridionale, dove, prima di invadere l’Ucraina, la Russia era stata l’unico arbitro tra Azerbaigian e Armenia. Ma, più in generale, la Russia era vista come un “protettore” per le regioni separatiste all’interno dei confini riconosciuti a livello internazionale di Georgia e Azerbaigian, essendo abbastanza potente da “congelare” cinicamente i conflitti congelati per preservare la sua influenza. Ora, tuttavia, il ridotto impegno di Mosca lascia spazio ad altri attori esterni.

Questo è il caso, ad esempio, dell’Unione europea che ha promosso gli incontri ad alto livello tra il primo ministro armeno Nikol Pashinyan e il presidente dell’Azerbaigian Ilham Aliyev, così come degli Stati Uniti, anch’essi riemersi come mediatori attivi nell’ambito del conflitto in Nagorno Karabakh.

Ma anche della Turchia, altro attore strategico alla luce della sua alleanza con l’Azerbaigian, ma anche del complesso processo di normalizzazione diplomatica con l’Armenia. E infine, dell’Iran, paese sotto sanzioni e in balia di gravi disordini interni, per il cui il disturbo delle rotte di transito verso l’Armenia rappresenta una minaccia significativa.

Ma più in generale, tutti i partner della Russia nella Csto avvertono il declino delle forze russe. Il silenzio di Mosca, ad esempio, è stato certamente notato durante gli scontri al confine tra Kirghizistan e Tagikistan che hanno causato la morte di circa 100 persone a settembre scorso.

Anche se la Csto non sarà sparirà nell’immediato, sarà sempre più vittima della sua stessa irrilevanza. È stato molto significativo che l’ultimo summit Csto in Armenia a novembre scorso si sia concluso con il rifiuto del primo ministro Nikol Pashinyan di firmarne la dichiarazione finale.

Le sorti dell’impero economico

Nonostante nove pacchetti di sanzioni europee e gli ingenti costi delle operazioni militari, l’economia russa sembra per ora dar prova di resilienza. È riuscita a rimanere a galla nonostante le speranze occidentali di un collasso che avrebbe portato all’inceppamento della macchina bellica: all’inizio del 2023, il Fondo monetario internazionale ha persino rivisto al rialzo le sue stime per il Pil russo, prevedendo che si espanderà dello 0,3 per cento nel 2023 e del 2,1 per cento nel 2024.

Ma sono in molti a credere che questa guerra porterà a un declino a lungo termine della produttività e forza economica della Russia. Putin ha di fatto dovuto sospendere i programmi di modernizzazione economica, priorità dell’inizio del suo ultimo mandato.

La guerra acuisce le sfide strutturali che caratterizzano da anni l’economia russa, come l’eccessiva dipendenza dall’export di energia, la mancanza di diversificazione, la corruzione e un clima sfavorevole agli investimenti. La necessità di far fronte alla mancanza di driver essenziali alla crescita sta pesando sull’economia.

Allo stesso tempo, riaccende una doppia strategia basata sulla “russificazione” dei processi di produzione e diversificazione dei partner commerciali che, tuttavia, non sembra per ora in grado di sostituire il mancato trasferimento tecnologico e gli investimenti dall’occidente.

Influenze che cambiano

Questa situazione si ripercuoterà inevitabilmente sulla capacità di attrazione economica russa verso i vicini. Questa tendenza può essere più difficile da ravvisare rispetto al declino della cooperazione politica e di sicurezza: l’Asia centrale ne è un esempio perfetto.

La Russia ha da sempre esercitato una forte influenza attraverso il suo ruolo di economia più forte della regione, meta di centinaia di migliaia di migranti, paese dominante nel commercio interregionale (anche attraverso l’Unione economica eurasiatica) e negli scambi energetici.

E in effetti, a un primo sguardo, potrebbe sembrare che le relazioni economiche tra Russia e Asia centrale siano in forte espansione dall’inizio della guerra. Le statistiche ufficiali mostrano che il commercio è aumentato notevolmente con tutte e cinque le repubbliche centroasiatiche, mentre le rimesse dalla Russia non hanno subìto un crollo, come temuto.

Ma questa crescita è in gran parte legata ai nuovi modelli commerciali causati dalle sanzioni (con molti sospetti di re-routing di merci occidentali), nonché all’esodo di massa dei russi fuggiti in Asia centrale in seguito allo scoppio della guerra e all’inizio della mobilitazione.

A questo bisogna aggiungere il lento ricambio generazionale che farà sparire i vecchi network commerciali di epoca sovietica, l’attrattività di altri attori esterni (in primis, Turchia e Cina) e la ricerca di nuove rotte commerciali ed energetiche alternative che bypassino la Russia (considerata partner “inaffidabile” anche per via dei rischi legati alle sanzioni occidentali, percepite come uno stato di cose consolidato invece che come una misura provvisoria).

Un esempio perfetto è il tentativo kazako di potenziare il transito ferroviario del suo petrolio verso i porti del Mediterraneo o del Baltico: più costoso del collegamento via il Caspian Pipeline Consortium (Cpc), che collega i giacimenti petroliferi del Kazakistan occidentale al porto russo di Novorossijsk, ma con molti meno rischi politici.

Una nuova “diaspora” russa?

Un aspetto certamente più difficile da misurare, ma certamente degno di attenzione, riguarda un possibile rovesciamento delle gerarchie sociali, oltre che politiche, nella regione. L’arrivo in massa di cittadini russi ha suscitato sentimenti contrastanti nel Caucaso e in Asia centrale.

Mentre alcuni sono stati felici di aiutare i nuovi arrivati, vedendo questi relokant (“expat” in russo) come una risorsa economica, altri guardano a questo esodo con sospetto, anche per via di atteggiamenti “coloniali” di alcuni rifugiati e dall’aumento del costo della vita causato dalla loro presenza. Inoltre, nonostante il cliché di relokant sia quello di giovani di classe medio-alta provenienti dalle città, in realtà molti di essi arrivano dalle province russe e hanno mezzi limitati, che li portano a svolgere lavori umili (per esempio, fattorini).  

L’impatto reale di queste dinamiche, come di quelle politiche ed economiche analizzate sopra, dipenderà dall’esito della guerra. Ma tanti segnali indicano che, nonostante la Russia non scomparirà di certo e rimarrà un attore significativo nella regione, avrà un ruolo molto ridotto a causa della sua guerra contro l’Ucraina.

© Riproduzione riservata