Gaza, Iran e ora la Siria. La guerra infinita di Benjamin Netanyahu si accende sul confine israelo-siriano dove da domenica le forze di difesa hanno inviato droni a difesa della comunità drusa, bersagliata dall’esercito di Damasco.

Ma dopo i primi scontri su Suwayda, dove in pochi giorni sono morte almeno 250 persone, Israele ha bersagliato anche la capitale. Nello specifico, i raid dell’Idf hanno colpito il quartier generale dell’esercito siriano e il palazzo presidenziale, sede del nuovo leader Ahmed Al-Sharaa.

«Ci prepariamo a giorni di battaglia», hanno fatto sapere dall’esercito di Tel Aviv, mentre la comunità internazionale segue con preoccupazione la possibile escalation. Gli Usa, per bocca del segretario di Stato Usa, Marco Rubio, vogliono che i combattimenti in Siria finiscano e ha aggiunto che stanno «parlando con entrambe le parti».

Un’intesa fragile

In realtà, un primo risultato, forse ancora fragile, sembra esser stato raggiunto: la comunità drusa di Suwayda ha annunciato il raggiungimento di un accordo con il governo siriano. «L’accordo prevede la piena integrazione della roccaforte drusa nel paese e il funzionamento e la riabilitazione di tutte le istituzioni», spiegano membri della comunità, aggiungendo che l’accordo prevede l’istituzione di un comitato investigativo «per indagare sulle violazioni avvenute e un risarcimento per le vittime».

In teoria tutto questo dovrebbe significare che le forze del regime siriano si ritireranno e che i drusi gestiranno il controllo della sicurezza nell’area. Il problema è che nessuno, al momento, scommette sulla prospettiva che l’intesa abbia davvero possibilità di essere attuata nella pratica. Tant’è vero che, a quanto filtra da fonti militari israeliane, le truppe di stanza a Gaza saranno ridistribuite nell’area del confine settentrionale con la Siria.

Se la Siria brucia, il caos della Striscia sembra oramai giunto a un punto di non ritorno. «Quello che è accaduto a Khan Yunis è molto grave ed è la prova che la nuova strategia israeliana è dare la colpa a noi gazawi per ogni cosa». A dirlo è il giornalista Hassan Isdodi che ha raccontato della calca mortale avvenuta a un sito di distribuzione del cibo gestito dalla Gaza Humanitarian Foundation. I contractor americani hanno aperto i cancelli per far avvicinare la gente per ritirare i pacchi, ma, quando la folla si è avvicinata, i presunti operatori umanitari hanno sparato gas lacrimogeni e spray al peperoncino.

È stata la stessa Ghf ad ammetterlo, raccontando del panico che si è generato e della ressa impazzita che ha provocato il decesso di 20 persone. «Diciannove vittime sono state calpestate in mezzo a un’ondata caotica e pericolosa che è stata provocata e guidata da agitatori tra la folla. Siamo col cuore spezzato», hanno detto gli operatori, nonostante in tutte le altre stragi del pane siano stati proprio loro a sparare su uomini, donne e bambini.

Secondo Ghf, tra la folla ci sarebbero stati membri di Hamas che avrebbero fomentato l’agitazione e utilizzato la confusione per accoltellare qualcuno. Almeno una delle 21 vittime, infatti, sarebbe morta per una ferita da arma da taglio, mentre tutti gli altri sono stati calpestati e schiacciati.

«Hanno detto che la gente era armata di pistole – racconta Bilal Al Bahia, un commerciante di Khan Yunis che era vicino al luogo dell’incidente – e non escludo che qualcuno possa aver pensato di portarla per proteggersi, visto i massacri che vengono compiuti quotidianamente, ma sicuramente il caos è stato orchestrato dalla Ghf. Hanno sparato gas lacrimogeni e spray al peperoncino per mandare la gente in panico, inoltre – aggiunge Bilal – siamo quasi certi che abbiano mandato qualcuno della milizia di Yasser Abu Shabab per fare danni. In questo modo è colpa nostra, non loro».

Morti soffocati

La strage ha turbato molto anche Mohammed Zaqqout, direttore degli ospedali di Gaza City. «Delle vittime al centro di distribuzione non ho potuto salvare nessuno – ha detto Zaqqout – sono tutti soffocati immediatamente. Di molti altri – ha aggiunto il medico – non si è potuto nemmeno recuperare i corpi, perché i soldati ce l’hanno impedito. E tanti feriti sono morti sul posto, perché non ci sono più ambulanze disponibili». Oltre alle 21 persone morte al centro di distribuzione, poi, mercoledì ce ne sono state altre 22 in un raid avvenuto su Gaza City e sulla zona di Khan Yunis, dove negli ultimi giorni si stanno concentrando anche tutte le operazioni dell’Idf.

In queste ore, però, il tavolo che scotta è quello in Qatar, che in questo momento è il principale mediatore tra Israele e Hamas sull’accordo per il cessate il fuoco. Dopo un incontro telefonico, il presidente americano Donald Trump ha accolto alla Casa Bianca l’emiro Tamim Bin Hamad al-Thani per discutere non solo della possibile tregua, ma soprattutto del rilascio dei restanti ostaggi israeliani nelle mani dei terroristi.

Al centro del dibattito c’è stato anche un possibile nuovo accordo sul nucleare tra Stati Uniti e Iran, anche se il principale nodo è stato e rimane tuttora la situazione a Gaza. Trump vuol chiudere il capitolo Medio Oriente e sta facendo pressioni sia su Netanyahu sia sul Qatar. Ma i nodi al pettine sono ancora tanti, troppi.

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