A marzo 2025 il governo ad interim di Damasco guidato dal presidente Ahmed al Sharaa ha siglato un accordo con Mazloum Abdi, comandante in capo delle Forze democratiche siriane, per riunificare la Siria.

Quasi quattro mesi dopo, il processo è ancora in corso e le tensioni con le minoranze del paese sono ancora presenti, come dimostrano gli scontri di questi giorni tra l’esercito di Damasco e la popolazione drusa di Suwayda, nel sud-ovest della Siria.

Una delle questioni ancora da risolvere riguarda in particolare il futuro dei foreign fighters dell’Isis e delle rispettive famiglie. Sia gli uni sia le altre si trovano nelle prigioni e nei campi sotto il controllo dell’Amministrazione autonoma del nord-est, ma la gestione di questi luoghi presenta non poche problematiche.

Ideologia del Califfato

Le carceri richiedono standard di sicurezza che non sempre l’Amministrazione autonoma è in grado di garantire, e negli anni diversi jihadisti sono riusciti a scappare.

I campi, invece, sono luoghi in cui l’ideologia dello Stato Islamico continua a vivere tramite gli insegnamenti impartiti ai bambini da quelle donne che ancora credono nel Califfato.

Una volta riunificato il paese, anche l’amministrazione di campi e prigioni dovrebbe passare al governo di al-Sharaa. Su questo punto si è espresso anche il ministro degli Esteri turco, Hakan Fidan, ribadendo l’impegno della Turchia nel sostenere Damasco non solo nelle operazioni contro l’Isis, ma anche nella futura gestione dei luoghi in cui sono detenuti ex combattenti, donne e minori.

Ma cosa fare dei jihadisti e soprattutto delle famiglie ancora fermi nella Siria del nord-est? Secondo Tanya Mehra, senior research fellow dell’International Centre for Counter-terrorism, dovrebbero essere rimpatriati. «Finora solo una manciata di paesi hanno rimpatriato i propri cittadini, l’unico paese che si è dimostrato relativamente attivo è l’Iraq».

Ma tra le migliaia di persone che si trovano ad al-Hol e al-Roj ci sono anche cittadini europei. Come ad esempio Meriem Rehaily, la 28enne italiana arrivata in Siria nel 2014 e condannata in contumacia nel 2017 a 4 anni di carcere per arruolamento con finalità di terrorismo internazionale.

Il rimpatrio è necessario anche perché Damasco, ricorda la ricercatrice, non ha un sistema giudiziario penale realmente funzionante.

In passato era stata ventilata l’idea di costruire un tribunale internazionale per processare almeno i combattenti, ma, specifica Mehra, un simile tribunale sarebbe estremamente costoso e potrebbe processare solo coloro che hanno gravi responsabilità. Il rimpatrio, quindi, resta la migliore delle opzioni.

«Alcuni paesi europei lo stanno facendo, soprattutto nel caso di donne e bambini, ma in generale stanno parcheggiando i propri problemi altrove e si astengono dall’assumersi la responsabilità dei propri cittadini».

Ma gli Stati dell’Ue sarebbero in grado di rimpatriare e reinserire in società quantomeno donne e minori? Secondo Claudio Bertolotti, esperto di radicalizzazione di Ispi e membro dell’Eu Knowledge Hub on Prevention of Radicalisation, la risposta è no.

«I paesi dell’Ue hanno adottato un approccio di non apertura perché non esiste a oggi un sistema di reinserimento dei soggetti radicali che abbia funzionato. Sono stati fatti diversi esperimenti, usando diversi approcci, ma nessuno ha dato risultati favorevoli».

Deradicalizzazione

In Italia, sottolinea Bertolotti, non esiste un processo di deradicalizzazione strutturato perché per due legislature, la 17esima e la 18esima, l’unico disegno di legge al riguardo si è arenato al Senato. «A oggi non si parla più di deradicalizzazione, ma di abbandono della violenza. Si interviene per impedire che l’odio si trasformi in una manifestazione violenta».

Bertolotti ricorda anche che quando si parla di fenomeni di radicalizzazione, in senso generale, ci si riferisce a una piccola percentuale all’interno del gruppo di appartenenza, e che non sempre soggetti radicalizzatisi durante l’adolescenza restano tali negli anni. Per questo un settore di intervento potrebbe essere la scuola. «La Svizzera sta investendo molto nei professori degli istituti tecnici superiori per aiutarli a capire come anticipare un’azione violenta da parte di uno studente».

Allargando lo sguardo al di fuori dell’Unione europea, però, c’è un caso virtuoso di deradicalizzazione di donne e minori rimpatriati dalla Siria: il Kosovo.

Il paese balcanico ha iniziato le procedure di rimpatrio già nel 2019, quindi subito dopo la caduta dello Stato Islamico, riprendendosi un totale di 253 persone. Secondo le autorità, al momento del rimpatrio le persone tornate in Kosovo non rappresentavano una minaccia per la comunità e anzi il loro reinserimento in società avrebbe prevenuto la diffusione dell’estremismo violento.

Per facilitare il reinserimento di queste persone, il governo ha istituito un apposito dipartimento e coinvolto assistenti sociali, dirigenti scolastici, insegnanti, psicologi e apparati di sicurezza, oltre ad aver fornito supporto economico, psicologico e linguistico, soprattutto per i minori nati o cresciuti in Siria.

Secondo i dati raccolti dal Balkan Investigative Reporting Network, il programma ha dato i risultati sperati e la stragrande maggioranza dei condannati per terrorismo non ha commesso nuovi reati. Le missioni dell’Ue e dell’Onu per il Kosovo hanno espresso alcune perplessità sulla durata delle pene inflitte per terrorismo agli ex combattenti e alle donne, ma in generale il programma di rimpatrio è stato apprezzato da entrambe le istituzioni.

Il ruolo dell’Ue

Nonostante ciò, per l’Unione europea il tema del rimpatrio e della gestione delle carceri e dei campi in Siria non è argomento di dibattito. L’Ue effettivamente non ha competenze precise in materia, dato che la responsabilità in materia penale, reinserimento e sicurezza interna ricade sui singoli paesi membri, ma per l’Unione il problema da affrontare con il nuovo governo siriano è stato tutt’altro.

«Nei mesi immediatamente successivi alla caduta di Assad, la presenza di ex combattenti stranieri tra le file del nuovo esercito siriano era oggetto di disaccordo tra Damasco e i governi occidentali in generale», spiega Silvia Carenzi, associate research fellow dell’Ispi. «Dopo l’incontro tra al-Sharaa e Trump a Riyadh, paesi come gli Usa sembrano aver accettato la politica di integrazione dei combattenti stranieri in quanto opzione più realistica per tenerli nell’orbita della nuova amministrazione».

Eppure per Trump la questione è importante, tanto da aver sottolineato che si aspetta che il governo siriano collabori per prevenire una rinascita del sedicente Stato Islamico, e prenda in carico la gestione dei campi e centri di detenzione nel nord-est siriano.

Il tema, tra l’altro, è tornato sotto i riflettori nelle scorse settimane, perché – secondo le dichiarazioni del ministro degli Interni siriano – due membri della cellula legata all’attentato nella chiesa di Mar Elias a Damasco venivano proprio dal campo di al-Hol. Conclude Carenzi: «Questo sottolinea quanto la questione dei campi – soprattutto la necessità di rimpatrio dei residenti stranieri dei campi e lo studio di politiche di riabilitazione efficaci – sia più urgente che mai».

Questo articolo è stato prodotto nell’ambito delle reti tematiche di Pulse, un’iniziativa europea che sostiene le collaborazioni giornalistiche transnazionali

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