L’appartamento che ospita la sede di Eipr è ampio e luminoso. Le finestre affacciano sul ponte che sovrasta il quartiere Doqqi. Dall’alto si vede il luccichio delle auto che avanzano lente dalla sera alla mattina. In queste stanze, ogni giorno, lavorano gli uomini e le donne che dal febbraio del 2020 pianificano, in condizioni che definire difficili è un eufemismo, la strategia difensiva di Patrick Zaki, il ricercatore arrestato all’aeroporto del Cairo mentre tornava da Bologna, città dove frequentava un master in studi di di genere e il cui processo riprenderà il prossimo 7 dicembre. E in questa organizzazione Patrick aveva lavorato e fatto ricerca poco prima di trasferirsi a studiare in Italia.

Verso le 11 è un impiegato ad aprirmi la porta dell’ufficio: a quest’ora il Cairo, nonostante il traffico, è ancora una megalopoli che sonnecchia.

Avvocati nel mirino

La prima ad arrivare è Lobna Darwish. È minuta e ha i capelli ricci. Ha fatto la giornalista durante la rivoluzione e da alcuni anni è la responsabile del settore di studi di genere per l’Eipr.

«Ero il capo di Patrick e posso solo dire che in ufficio era una persona molto curiosa e in grado di fare amicizia rapidamente», racconta. «Osservando la mobilitazione che c’è stata in Italia dopo il suo arresto, in ufficio ci abbiamo scherzato sopra. Perché nessuno di noi, se fosse andato all’estero a fare un master o un dottorato, sarebbe riuscito a creare una rete di contatti e conoscenze in maniera così veloce. Noi ci avremmo impiegato sicuramente molto di più».

Mentre parliamo con Lobna, l’ufficio si popola. È giovedì, giorno della consueta colazione settimanale dove tra un falafel, un hummus e un nutrito vassoio di patatine, si discute delle attività dell’organizzazione. Visto così, tra sorrisi, un caffè e chiacchierate informali, questo posto sembrerebbe la sede di un normale think tank. Invece non lo è, perché occuparsi di diritti umani nell’Egitto di oggi non è mai stato così pericoloso.

Anche perché l’Eipr (la sigla sta per Egyptian Initiative for Personal Rights) si occupa di molti casi politici: arresti giustificati con delle carte vuote e inchieste costruite senza prove scandiscono la giornata di ricercatori e avvocati.

E con l’incarico di difendere Patrick Zaki, collega e amico, l’organizzazione è diventata un obiettivo ancora più sensibile per il governo.

La repressione

A novembre del 2020 Muhammad Bashir, direttore amministrativo, Karim Ennarah, direttore del Gruppo di lavoro sulla giustizia, e Ghasser Abdel Razak, il direttore esecutivo, sono stati arrestati dopo aver incontrato una delegazione diplomatica di alcuni Paesi occidentali, tra cui l’Italia, con l’accusa di concorso in associazione terroristica e diffusione di notizie false.

La loro detenzione è durata solo 3 settimane grazie a una mobilitazione che ha coinvolto personaggi di carattere internazionale. Tra loro c’era anche Scarlett Johansson, protagonista di un video appello che chiedeva la scarcerazione dei tre dirigenti e di Patrick Zaki.

«Siamo stati oggetto di una dura campagna mediatica. Ci hanno accusato di essere delle spie, di collaborare con i governi stranieri e di operare contro la sicurezza nazionale», racconta Hossam Bahgat, fondatore e attuale direttore di Eipr. A novembre è tornato a guidare l’organizzazione ma neppure lui è sfuggito alle maglie della macchina repressiva egiziana.

È indagato nell’ambito di un’inchiesta che va avanti da 10 anni e ha colpito la maggior parte dei lavoratori delle Ong del paese (da allora non può lasciare il paese e i suoi beni sono stati bloccati), mentre lo scorso settembre è stato rinviato a giudizio per aver criticato con un tweet il capo della commissione elettorale durante le elezioni legislative del 2020.

Quando gli chiedo del futuro di Patrick, Hossam mi risponde con un laconico «non possiamo sapere che cosa succederà», poi torna a lavorare nel suo ufficio, mentre io continuo a parlare con uno dei tre vertici di Eipr rilasciati alla fine dello scorso anno ma ancora sotto indagine.

Mi racconta del suo arresto e della sua reclusione al carcere di Tora al Cairo, proprio nella stessa cella di Patrick. Nell’atrocità del destino, che nell’Egitto di Abdel Fattah al Sisi vuole che i difensori e i prigionieri di coscienza non si incontrino in tribunale ma direttamente in carcere, ritrovare Patrick ha rappresentato una salvezza. «Mi ha dato del tè e delle coperte per affrontare il freddo», ricorda con emozione.

Le accuse

Verso mezzogiorno arriva Hoda Nasrallah: è lei l’avvocato a capo del team legale che difende Patrick. È una donna minuta, ha i capelli nero corvino e una tempra di acciaio. Prima del caso Zaki era conosciuta anche per il suo lavoro in difesa della minoranza cristiano copta di cui fa parte, come la famiglia del ricercatore egiziano.

Nel 2019 era riuscita a vincere una causa molto importante facendo riconoscere alle donne della minoranza cristiana gli stessi diritti in merito di eredità rispetto agli uomini. Si prepara un caffè nella piccola cucina dell’ufficio, le chiedo se ha voglia di parlare. Annuisce in maniera timida, ma quando inizia a raccontare diventa un fiume in piena: conosce il caso a memoria e lo ripercorre in venti minuti, anche se solo di recente ha potuto vedere le carte che hanno motivato il rinvio a giudizio dopo gli ultimi due interrogatori in carcere.

«Nel primo, a luglio, hanno chiesto a Patrick solo cosa facesse nella vita ma non hanno citato alcuna prova», spiega Nasrallah.

A settembre, con il secondo interrogatorio qualcosa cambia. Compare l’articolo sulle minoranze cristiane pubblicato nel 2019 per il portale Darraj. È il punto chiave attorno al quale ruota il rinvio di Zaki per «diffusione di notizie false e diffusione di terrore tra la popolazione». «In realtà esistono ancóra i 10 post di Facebook, l’ufficiale della National Security Agency che l’ha interrogato sostiene di averli avuti dall’intelligence», continua Hoda. «In più ci sono altre carte risalenti al 2013.

Si tratterebbe di cose scritte da Patrick in un non precisato sito web ma non so dove le abbiano trovate. Io ho fatto una ricerca e non mi risulta che esistano».

Questi elementi al momento non compaiono all’interno del provvedimento di rinvio a giudizio. Quello che potrebbe accadere, tuttavia, è che nascano altri procedimenti giudiziari per le prove che non sono ancora contenute nell’attuale procedimento.

La strategia

La difesa ha chiesto, su volere di Patrick, una perizia informatica per accertare che lui non sia il vero autore dei post su Facebook. Ma al momento le richieste non hanno ricevuto alcun feedback, così come non hanno avuto alcun seguito né l’esposto presentato dai legali alla procura per le torture subite da Patrick nelle ore immediatamente successive al suo arresto, né la richiesta di accedere alle immagini di sorveglianza dell’aeroporto.

«Non ci hanno mai risposto», spiega Hoda. «L’arresto di Patrick risulta ufficialmente l’8 febbraio a Mansoura e non all’aeroporto la sera prima come realmente accaduto. Abbiamo anche chiesto che venissero esaminati i telefoni di Patrick e del padre perché sappiamo che c’è stata una telefonata poco prima del fermo, ma ci è stata negata anche questa possibilità».

L’ultima azione di Hoda è stata quella di depositare una lettera alla presidenza della Repubblica per chiedere che venga fatta chiarezza sul periodo massimo di detenzione preventiva ammesso.

«Patrick è stato rinviato a giudizio per reati minori e il suo periodo di custodia cautelare non è due anni ma 18 mesi», osserva. «Questo significa che deve essere immediatamente rilasciato», racconta Hoda, che al momento non ha ancora avuto una copia del fascicolo. «Possiamo consultarlo alla segreteria del tribunale e solo durante i giorni di ferie: è tutto ciò che possiamo fare al momento».

Mentre Hossam riceve una visita da parte di altri colleghi e Hoda torna alla sua scrivania, salutiamo Lobna che ci affida un ultimo pensiero. «Patrick era curioso, per questo in Italia si è fatto fatica all’inizio a capire di cosa si occupasse. Faceva tante cose, aveva mille interessi e non stava mai fermo. Tu non sai quanto ho sofferto quando l’ho visto l’ultima volta in tribunale. Stava lì immobile, senza poter fare nulla. Ogni volta che lo vediamo in quelle condizioni, per noi è un colpo al cuore».

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