Aggiornamento del 30 novembre all’articolo:

Éric Zemmour ha ufficializzato la sua candiatura alle elezioni presidenziali francesi del 2022. L’annuncio è apparso sui social con un video dal titolo «È ora di agire». Il candidato di estrema destra è in campagna elettorale da mesi. Rivolgendosi ai «cari compatrioti», Zemmour ha detto che «non è più tempo di riformare la Francia, ma di salvarla».

La saga Éric Zemmour continua ad imperversare in Francia. E, come di regola, si arricchisce di sempre nuovi episodi. Dissipato l’alone di scetticismo che aveva circondato per un paio di mesi l’ipotesi di una discesa in campo del polemista nella competizione per la presidenza della Repubblica, la sua presenza ormai costante nei sondaggi sulle intenzioni di voto ad un livello tale – fra il 16 e il 17,5 per cento – da rendergli probabile il passaggio al secondo turno sta attivando un meccanismo di reazione le cui proporzioni fanno parlare alcuni commentatori di un vero e proprio terremoto in atto all’interno del sistema politico transalpino.

Il clima di attesa attorno all’annuncio dell’effettiva candidatura dell’inatteso outsider sta in effetti salendo drammaticamente di tono. E se sul versante mediatico le questioni più trattate appaiono piuttosto effimere – l’interrogativo sulla data scelta per sciogliere le riserve: il 9 o l’11 novembre, a seconda che venga preferito l’anniversario della scomparsa del generale de Gaulle o quello della vittoria nella prima guerra mondiale, ricorrenze comunque emblematiche di quel patriottismo di cui l’ex stella dei talk show televisivi vuol essere l’alfiere, oppure la reale natura dei rapporti del sessantottenne Zemmour con la direttrice della sua pre-campagna elettorale, l’enarca Sarah Knafo, come lui ebrea di origini algerine ma ventottenne –, sul terreno più propriamente politico i temi chiamati in causa sono decisamente pesanti.

Disonorare il padre

L’intero arco delle forze parlamentari, costretto a prendere sul serio la sfida che gli è stata lanciata, non ha infatti esitato a ricorrere a un arsenale dialettico che sembrava destinato a rimanere confinato in soffitta da quando il vecchio nemico pubblico numero uno, il campione delle provocazioni Jean-Marie Le Pen, era uscito di scena, consegnando il Front national, il partito di cui era stato padre-padrone per quasi quarant’anni alla più accorta figlia Marine.

Si sono sentiti così la candidata presidenziale socialista Anne Hidalgo, sindaco di Parigi, parlare dell’avversario come di una «macchietta razzista e antisemita» che disonora il paese e il centrista François Bayrou, indefesso tessitore da decenni di ogni tipo di alleanza in grado di tenere a galla il suo partitino, evocare «un terribile pericolo per la Francia», capace di provocarne la «sovversione».

Fabien Roussel, candidato comunista che fatica a raccogliere l’1 per cento nelle previsioni di voto, si è spinto oltre, promuovendo all’Assemblée nationale una mozione per impedire a Zemmour di presentarsi, in quanto condannato nel 2011 dal tribunale di Parigi  per aver affermato che la maggior parte dei trafficanti di droga attivi in Francia sono neri o arabi, frase considerata una «provocazione alla discriminazione razziale».

Scontri

La questione è salita ulteriormente di tono quando due alti funzionari, il prefetto Pottier e l’ex presidente del consiglio costituzionale Mazeaud, hanno addirittura suggerito di procedere a una riforma costituzionale che trasferisca il potere di eleggere il capo dello Stato dai cittadini al parlamento, perché, come ha detto il primo, «i candidati oggi non si confrontano più su visioni del mondo o piattaforme programmatiche ma si vedono costretti a reagire alle polemiche suscitate da personaggi più o meno strambe che mirano solo a rafforzare la loro visibilità mediatica».

Il tutto mentre anche le piazze iniziavano a surriscaldarsi, con il moltiplicarsi degli appelli via web alla mobilitazione dei gruppi dell’estrema sinistra, vari incidenti con simpatizzanti della parte avversa e un primo episodio di guerriglia urbana a Nantes, dove 600 manifestanti hanno cercato di impedire uno dei tanti incontri pubblici di presentazione del libro-manifesto del discusso non (ancóra) candidato, provocando forti scontri con la polizia.

Fuoco amico

Ad essere preoccupati dall’attivismo di Zemmour e dalla crescita della sua popolarità non sono però solo i suoi avversari naturali. La vicenda mette sempre più in imbarazzo sia gli esponenti della destra classica, i Républicains eredi di Jacques Chirac e Nicolas Sarkozy, sia Marine Le Pen.

I primi, alla vigilia del congresso che dovrà decidere quale candidato scegliere fra i cinque che ambiscono a partecipare alla competizione presidenziale, si trovano di fronte a un bivio impegnativo: seguire Emmanuel Macron e le varie sinistre nello scontro frontale con l’intruso che sino a poco tempo addietro era considerato prossimo al loro campo, oppure metterla sul piano del duello cavalleresco, magari cercando di fargli concorrenza sul suo stesso terreno richiamando alcune delle sue stesse parole d’ordine su immigrazione e sicurezza?

L’esponente più “progressista” fra i papabili, Xavier Bertrand, ha già imboccato la via dell’attacco diretto e senza esclusione di colpi, ma i suoi rivali più accreditati, l’ex negoziatore dell’Unione europea Michel Barnier e la presidente regionale dell’Ile-de-France Valérie Pécresse, esitano a seguirlo, ben sapendo che una virata a sinistra del loro partito potrebbe tradursi in un’emorragia di voti verso il conservatore sovranista. E questa frattura poco facilmente sanabile sembra allontanare una parte del loro elettorato potenziale.

Contro Le Pen

Quanto a Marine Le Pen, che dall’ascesa di Zemmour patisce i maggiori danni – una recente indagine dell’Ifop, il più accreditato istituto demoscopico francese, indica che fra coloro che si dichiarano intenzionati a votare per il polemista ben il 34,8 per cento nel 2017 aveva votato per lei, contro il 24,7 per cento del repubblicano François Fillon, il 6,7 per cento del gollista ortodosso Nicolas Dupont-Aignan, il 5,8 per cento di Macron, la stessa percentuale del populista di sinistra Jean-Luc Mélenchon e poco meno del 20 per cento di astenuti –, la sua linea pare essere quella della non-belligeranza.

Ma il suo diretto concorrente non la segue e la incalza, moltiplicando le dichiarazioni ostili. La descrive come «una donna di sinistra» (profilo che ai suoi occhi non risulta lusinghiero), che «ha dalla sua soltanto delle classi popolari, è rinchiusa in una sorta di ghetto di operai e disoccupati, che sono persone assolutamente rispettabili e importanti, ma non tocca i Csp+ (ovvero le categorie socio-professionali superiori) e la borghesia» e torna a incollarle l’etichetta di sicura perdente nell’eventuale scontro finale con Macron, richiamando quella disastrosa prestazione nel dibattito televisivo con il futuro presidente che colò a picco le sue ambizioni (e le provocò uno choc psicologico da cui non si è mai completamente ripresa).

Se questi attacchi indeboliranno ulteriormente la rivale o provocheranno un effetto opposto, attribuendole quella patente di moderazione da lei a lungo invano inseguita e dando una spinta decisiva alla “sdemonizzazione” che sta cercando da almeno un decennio, è presto per dire. Ma se i sondaggi futuri dovessero accrescere il divario che la separa dall’accesso al secondo turno, sarà inevitabile, per la leader del Rassemblement national, dissotterrare l’ascia di guerra.

Il “caso Zemmour”

Per il momento, la citata indagine demoscopica fornisce un quadro interessante dei sostenitori di Zemmour: diffusi in maniera piuttosto omogenea nei diversi strati socioprofessionali, provvisti in media di un titolo di studio superiore, presenti in proporzioni fra il 18 e il 20 per cento nelle varie fasce di età della popolazione maschile, essi risultano nettamente sotto-rappresentati (6 punti percentuali in meno) nell’elettorato femminile, mentre salgono fortemente sopra la media quanto al loro livello di informazione politica.

Un profilo complessivo che si distingue da quello abituale degli elettori dei partiti populisti e/o di destra radicale, provenienti da strati decisamente più popolari e meno istruiti. Un dato che fa riflettere, perché, combinandosi a quello di chi tuttora voterebbe per Marine Le Pen, lascia intendere che ormai circa il 35 per cento della popolazione francese è disposto a identificarsi con un candidato che esprime il rifiuto dell’immigrazione di massa, della società multiculturale e della penetrazione musulmana nel tessuto sociale.

E che provoca una forte preoccupazione in chi, come la fondazione di ispirazione socialista Jean Jaurès, ritiene ormai indispensabile rivolgere l’attenzione degli studiosi sul “caso Zemmour”, visto come rivelatore di un’ulteriore ondata di destrizzazione dell’opinione pubblica transalpina.

In cerca di padrini

Resta peraltro ancora da vedere se Eric Zemmour avrà effettivamente la possibilità di presentarsi all’elezione presidenziale. Per riuscirci, ha bisogno di 500 dichiarazioni di sostegno (parrainages) alla sua candidatura, che devono essere sottoscritte da sindaci o da eletti nei consigli regionali e dipartimentali, in alcuni consigli di città metropolitane e assemblee territoriali, nel parlamento nazionale e in quello europeo.

Con la nuova legge in vigore, sono i sottoscrittori – i cui nomi sono resi pubblici già da vent’anni a questa parte – e non i candidati a dover inviare la lettera di appoggio all’apposita commissione; ed è tutt’altro che sicuro che siano in molti a volersi esporre in modo plateale alla prevedibile campagna di denigrazione dei “complici” di un personaggio così scomodo.

I reiterati appelli dell’aspirante candidato alla ferita che una mancanza dei padrinati necessari alla sua presentazione recherebbe alla democrazia lasciano capire che Zemmour prende in seria considerazione questa eventualità. È un altro elemento che si si aggiunge alla suspence di questo imprevedibile capitolo della lunga e tormentata storia politica della Francia repubblicana.

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