Non c’è solo l’Europa: per capire dove sta andando il mondo occorre sollevare lo sguardo. Al modesto risultato dell’African National Congress (Anc) sudafricano che perde per la prima volta la maggioranza assoluta e sarà obbligato a coalizzarsi con altri, corrisponde un risultato simile in India.

Il Bharatiya Janata Party (Bjp) del premier Narendra Modi, che doveva conseguire una grande vittoria – il primo ministro aveva previsto 400 seggi – ne ottiene invece 240, una trentina sotto la maggioranza. Anche il Bjp sarà obbligato ad una colazione con partiti minori regionali. L’insegnamento che viene da queste due importanti tornate elettorali è che la democrazia (quando è libera) riserva sempre delle sorprese: gli elettori decidono e possono cambiare linea.

Anc e Bjp restano al potere ma dovranno condividerlo: una palestra di democrazia che servirà loro da lezione visto che pensavano di fare tutto da soli. In Turchia è accaduto qualcosa di simile alle recenti amministrative, con la vittoria delle opposizioni nelle più importanti città. Si tratta di un monito: in un sistema democratico non bisogna dare mai nulla per scontato.

Un freno ai “pieni poteri”

D’altra parte ciò rappresenta una frenata evidente per il sovranismo che pretende di possedere il potere (“i pieni poteri”) e ingaggia con la società una lotta corpo a corpo fatta di allarmismi demagogici, emozioni e passioni ideologiche. Non si può non riconoscere i meriti di Modi nell’aver spinto l’India fuori l’isolazionismo immobilista, burocratico e in parte anche corrotto, dei tanti decenni di potere del partito del Congresso. Oggi l’India è un attore internazionale ascoltato e al centro della geopolitica globale.

Ciò di cui però gli elettori si sono stancati è stato il metodo utilizzato dal premier: un sovranismo identitario assai pronunciato, con atteggiamenti xenofobi verso le minoranze e le opposizioni. Occorre tener conto che l’India ha un importante minoranza musulmana di oltre 200 milioni di persone, oltre che cristiani e altre religioni. Nel sub-continente si parlano tante lingue e si intrecciano storie molto diverse: è un universo di tradizioni e culture.

Tutti riconoscono a Modi i successi nella modernizzazione sia dell’apparato pubblico che del settore privato, in specie in materia tecnologica e finanziaria. Tuttavia la sua costante insidia e il suo disprezzo per il delicato tessuto socio-nazionale del paese più popoloso del mondo non paga più, anzi preoccupa.

Lo stesso destino lo sta vivendo, con le debite differenze, l’ANC: la retorica identitaria “nera” poggiata su un pesante apparato ideologico, non basta più agli elettori sudafricani che pretendono soluzioni concrete ai problemi reali del paese.

Dal canto suo in Turchia sta passando al filtro elettorale l’impasto politico-religioso sul quale Recep Tayyip Erdoğan ha basato il suo potere: una dottrina identitaria religiosa anch’essa molto sovranista e contraria alle minoranze (come i curdi) e ad ogni dialogo con l’opposizione. Ciò che accomuna i tre paesi, molto diversi tra di loro in verità, è che la democrazia rimane in grado di esprimere lo scontento incanalandolo verso nuove proposte politiche. In Europa si dovrebbe avere più fiducia nella saggezza degli elettori e nella tenuta della democrazia.

Tuttavia la battaglia è in corso perché in Turchia e India l’attacco all’indipendenza degli altri poteri (come la magistratura) e alla libertà dei media è tuttora in corso. Meno in Sudafrica proprio grazie alla tradizione liberale anglosassone che non permette all’Anc di smentirsi, rinnegando i principi fondamentali iscritti nella costituzione del post-apartheid.

Flessibilità 

In sintesi si può dire: il sovranismo identitario non basta come risposta politica in un mondo in cui la diversità regna ormai dovunque ed è sempre più accettata. Si tratta di una sfida reale ad ogni latitudine: non si può negare che un simile sommovimento sia difficile da gestire. Tutti ci devono fare i conti: non è possibile immaginare nessun paese senza diversità o con strutture di potere basate sulla sola maggioranza. Può sembrare un paradosso in questo momento di guerre e di poteri assoluti, ma il fallimento degli autoritarismi, cioè dei regimi rigidi e fondati sull’uniformità, è un destino segnato.

Con una battuta si potrebbe dire che, a dispetto delle nostre volontà, il mondo è ormai fluido: i sistemi senza flessibilità e paralizzanti non possono essere la risposta. C’è da aggiungere che la democrazia è un dialogo continuo ed un negoziato permanente: i leader che reagiscono con fastidio non interpretano correttamente il tempo attuale.

Com’è noto Ernest Renan scrisse che «la nazione è un plebiscito di tutti i giorni». Significa che le nazioni si fondano sul consenso ma anche sulla fusione di popoli, culture e religioni differenti, sull’influenza di movimenti di idee e pensiero diversi, sulla storia e sulla cultura, sula lingua e così via. Tanto più ciò vale per le democrazie avanzate: andare a cercare valori immutabili e indeformabili nel passato significa manipolarle.

Il soft power italiano 

Per l’Italia tutto questo è un vantaggio: il nostro paese è stato grande quando nel Rinascimento con il suo soft power culturale ha influenzato tutta Europa e poi il mondo. Come ha scritto recentemente Luigi Zoja in Narrare l’Italia, per vari secoli il nostro paese è stato una superpotenza senza mai conquistare nessuno con le armi né essere politicamente unito.

Ancora oggi tale influenza è vivace e dimostra che il potere politico e militare non è tutto: serve qualcosa di più, un discorso civile che assuma valore civico generale comprensibile oltre le nostre frontiere e che altri desiderino imitarlo. È quell’umanesimo nato nella penisola, che dovrebbe caratterizzare la nostra democrazia, la nostra politica estera e la costruzione in corso dell’Europa unita. 

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