Il conflitto causato dall’invasione russa dell’Ucraina è il primo dell'era digitale. La guerra, ormai, si combatte non solo con i mezzi tradizionali (carri armati, missili, bombe) e con tutte le violenze e le barbarie a cui - purtroppo - stiamo assistendo impotenti.

Parallelamente si sta svolgendo un confitto meno visibile: una vera e propria cyberwar combattuta da informatici russi da un lato e dall’esercito It ucraino (così lo ha definito il presidente Zelensky). Esercito che può contare sul sostegno di gruppi di hacker di tutto il mondo (come Anonymous) che hanno attaccato siti e sistemi governativi russi.

Insomma, quella a cui stiamo assistendo è la prima “social war”: la prima guerra che viaggia sulle nostre bacheche. In questo conflitto, i social sono al tempo stesso strumento di propaganda delle parti in conflitto, mezzo di informazione che consente di dare una copertura senza precedenti a quello che sta accadendo, possibilità di comunicare direttamente con le vittime del conflitto, mezzo di diffusione di disinformazione e fake news.

È anche grazie ai social che possiamo restare informati sugli ultimi aggiornamenti e prendere posizione contro quello che sta accadendo. Senza social, inoltre, difficilmente il presidente ucraino Zelensky avrebbe potuto consolidare la propria leadership e acquisire così velocemente credibilità su scala globale.

La non neutralità delle piattaforme

Non possiamo però commettere l’errore di considerare le piattaforme neutrali in questo conflitto. Le società che gestiscono Facebook, Twitter, Instagram, TikTok hanno deciso di schierarsi nel conflitto, prendendo le parti di uno dei due contendenti (l’Ucraina).

Certo, si dirà, lo hanno fatto tanti altri brand e multinazionali (da Ikea che ha chiuso i suoi  negozi in Russia fino a Visa e Mastercard che hanno deciso di sospendere pagamenti e servizi  di rete). Nel caso dei social, però, non si tratta di semplice brand activism o peacewashing.

Ciò che sta succedendo in questi giorni si inserisce in un processo evolutivo in cui piattaforme - nate per disintermediare e contrapporsi al “potere costituito” - si comportano sempre più come veri e propri stati.

Hanno una comunità estesa (quasi tre miliardi per Facebook e oltre un miliardo per TikTok) su cui esercitano la propria autorità. Impongono regole in modo autoritativo (“prendere o lasciare”) e le fanno osservare (decidendo quali contenuti devono essere rimossi e quali utenti devono essere bannati). Alcune hanno un proprio sistema giudiziario, come la Corte suprema di Facebook, l’Oversight board che ha deciso sulla illegittimità del ban a vita di Donald Trump.

Studiano se dotarsi di una propria valuta, ovviamente crypto, e conducono trattative con altri stati, visto il ruolo che hanno assunto non solo nelle vite dei singoli, ma anche nelle nostre società. Attraverso i social media passa l’informazione, il dibattito pubblico, la possibilità di poter influenzare non solo le scelte dei decisori politici (a ogni livello) ma anche di poter organizzare il dissenso verso questo o quel governo oppure, addirittura, manipolare l’esito di consultazioni elettorali.

La social war contro Putin

Non sorprende quindi che le piattaforme digitali abbiano deciso di dichiarare una “social war” alla Russia, sostenendo l’Ucraina. Lo hanno fatto, imponendo - a modo loro - sanzioni, così come hanno fatto tanti altri stati sovrani. Anzi, in alcuni casi, le sanzioni dei social possono essere più rilevanti.

Meta ha sospeso la possibilità per i media di stato russi di acquistare inserzioni pubblicitarie per promuovere i propri contenuti, così come di monetizzare in qualunque modo. Sanzioni analoghe sono state messe in campo anche da YouTube, Instagram e Twitter. Quest’ultimo ha anche iniziato a etichettare in modo molto evidente i profili ufficiali russi in modo da mettere in allerta tutti gli altri utenti su possibili fake news di regime.

Inoltre, quasi tutte le piattaforme hanno modificato i propri algoritmi in modo da penalizzare i contenuti diffusi dal governo russo e dai media di stato in modo che vengano visualizzati sempre meno sulle bacheche e tra  i suggerimenti. Insomma, dalla “damnatio memoriae" (la condanna che, ai tempi dell’antica Roma, consisteva nella cancellazione di ogni ricordo di un certo personaggio) alla “damnatio mediorum socialium” (la nuova pena che consiste nel cancellare ogni traccia del condannato dalle piattaforme digitali).

Per non parlare delle modifiche che sono state apportate alle regole di moderazione per consentire che i post in cui cittadini ucraini e giornalisti mostrano operazioni belliche e la crudeltà del conflitto non fossero cancellati o rimossi (come pure inizialmente era avvenuto) per contrarietà con le rigide regole definite dai social in tempo di pace.

Proprio come si fa quando le relazioni tra stati si irrigidiscono, la Russia ha preso i suoi contro-provvedimenti inibendo l’accesso alle principali piattaforme attraverso la decisione della  locale autorità che regola le telecomunicazioni.

Insomma, i social si sono schierati e partecipano ad un nuovo tipo di conflitto. Molti diranno che si sono schierati dalla parte giusta. Ed è vero. Ma questa osservazione non può distrarci dal riflettere sul fatto che quello che stiamo vivendo rischia di rappresentare un pericoloso precedente.

I soggetti che gestiscono queste piattaforme non solo si comportano da Stati (e tra i più influenti) ma decidono secondo meccanismi e logiche che sfuggono alla nostra conoscenza. Per quale motivo, ad esempio, Donald Trump è stato bannato e il Cremlino no?

In ogni caso, agendo contro la Russia, le aziende tecnologiche stanno adottando politiche che potrebbero diventare la regola per futuri conflitti. Queste decisioni, assunte senza un’adeguata ponderazione, potrebbero cambiare radicalmente non i rapporti tra aziende e i governi ma anche le nostre società.

Le piattaforme, che pure sostengono le democrazie, sono tecnocrazie autoritarie e opache. Le regole sono definite in modo unilaterale, applicate con un elevatissimo margine di discrezionalità (di cui nessuno risponde) e possono schierarsi in poche ore in un conflitto. Senza renderne conto a nessuno, se non ai propri azionisti e investitori. Di sicuro non ai propri “utenti”, o forse sarebbe meglio dire “sudditi”.

Insomma, il nodo della regolazione delle piattaforme - e del potere che i social hanno anche durante una guerra - non è più rinviabile.

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