Il cielo del mondo slavo sembra più grigio, più opprimente che in altre regioni del pianeta. È come se in certi giorni volesse pesare sulla testa degli uomini, dalla pianura della Slavonia, subito dopo Zagabria, fino ai monti Urali.

Là una incisione in pietra annuncia: da questo punto inizia l’Asia. Ma nella mia personale geografia il capolinea del mondo slavo arriva fino a Semipalatinsk, in Kazakistan, dove Dostoevskij fu mandato in esilio dopo la finta fucilazione decisa dallo zar.

Le pagine di Delitto e castigo sono maturate anche lì. Poi arrivò l’esilio di Trotzkij sempre in quelle zone. E anche oggi c’è uno zar, ma la fucilazione decisa da lui con armi micidiali in queste settimane è autentica, collettiva, se pure annunciata ipocritamente come «operazione militare speciale».

Per molti popoli slavi Mosca è stata nel tempo un polo di attrazione, un approdo simbolico e rassicurante, ben prima che dal Cremlino sgorgasse il Patto militare di Varsavia e quello commerciale del Comecon.

Milos Crnjanski un secolo fa cominciava a pubblicare Migrazioni, simbolo poderoso di tutte le diaspore che perseguitano gli uomini, dove la marcia dei serbi verso la terra promessa russa si era spenta in una cupa delusione.

In questi giorni Kirill, patriarca di Mosca e di tutte le Russie, ha accordato allo zar senza corona un sostegno pieno, giustificando la guerra in Ucraina come una reazione all’occidente corrotto, in una esaltazione complessiva del «mondo russo-russkij mir». Già in passato aveva accolto la elezione di Putin a presidente come un «dono di Dio». E alle cerimonie pubbliche arrivavano con due auto blindate identiche.

Malinconia slava

Con una sintesi approssimativa si dice che i popoli slavi hanno una vena di malinconia. Forse per questo la paprika abbonda sui cibi attorno al Danubio e la vodka ha i suoi estimatori che la ordinano a peso, non solo per proteggersi dalla neve ma anche per intiepidire il morale.

Ai tempi della protesta di Maidan la vodka si comprava anche all’ufficio postale nei villaggi ucraini. In questi giorni la malinconia è scavalcata dalla disperazione e dalle devastazioni della guerra.

La Cecenia, Sarajevo, non hanno insegnato nulla, gli architetti prediligono sempre gli edifici alti, ma anche i cannoni e i missili hanno la stessa predilezione. E tre strisce orizzontali di colore bianco, blu e rosso compongono, sistemate in ordine diverso, la bandiera della Russia, quella della Serbia e quella dell’Olanda, dove la Corte penale internazionale e il suo carcere hanno accolto Milošević, Mladić, Karadžić e altri campioni violenti del mondo slavo. Un approdo non ancora esaurito.

Predrag Matvejevic

Lo scrittore Predrag Matvejević è stato un esempio concreto delle mescolanze che attraversano il mondo slavo. Suo padre era un russo nato a Odessa, sua madre una donna croata della Bosnia Erzegovina, lui era nato a Mostar, dove il famoso ponte costruito secoli prima da un grande architetto turco univa le due rive che separavano cristiani da musulmani. E aveva studiato a Sarajevo, usando quella grande biblioteca che poi i cannoni serbi ridurranno in uno scheletro annerito alla fine del secolo scorso.

La sua è stata una vita consumata tra asilo ed esilio, cittadino della giovane Jugoslavia che si è disintegrata in modo sanguinoso dopo appena quaranta anni dalla fondazione.

Quando era bambino portava metà del pane che entrava in famiglia a tre prigionieri tedeschi, su indicazione di suo padre, senza farsi notare dai vicini di casa. Ma da adulto aveva capito molto bene che i paesi dell’est, così docili con il Cremlino, avevano poi mostrato la stessa docilità, se non zelo, verso l’occidente e la Nato. Offrendo tra l’altro le loro prigioni per interrogatori brutali.

Con il crollo del muro di Berlino nel 1989 la libertà compressa, rubata negli anni della Guerra fredda aveva cominciato a scorrere irruenta. Il primo contraccolpo si era visto in Romania con Ceausescu. Il conducator era corteggiato in occidente non perché fosse un liberale, diverso dagli altri soci del Patto di Varsavia, ma perché era antisovietico.

La sua concezione dinastica del potere, con moglie e figlio sempre più invadenti, e rituali monarchici con lo scettro in mano, era tollerata. Favorita dalla retorica della Romania isola latina nel mare slavo, dall’esilio di Ovidio sul Mar Nero.

Da Bucarest all’Ossezia del sud

A Bucarest era stato stampato un libro con inediti di Marx commentati dal professor Otetea che davano ragione ai romeni di fronte alle pretese russe sulla Bessarabia: Insemnari despre romani. Il libro non fu mai messo in vendita per non irritare Mosca. Ma queste e altre cautele alla fine non avevano fermato una rivolta popolare. Ceausescu fu deposto e fucilato assieme alla moglie nel dicembre 1989.

Gorbaciov era ancora al Cremlino. Ma nei primi giorni del 1991 scoppiava un conflitto minore in Ossezia del sud, ai confini con la Georgia, nel Caucaso. Tra l’indifferenza occidentale la miccia del separatismo veniva accesa nella regione sovietica da sempre più turbolenta e instabile.

Per arrivare nella piccola repubblica assediata c’era solo una strada tagliata tra due pareti di neve alte cinque metri, con i cannoni ai lati per smuovere le valanghe che incombevano. Sembrava la Russia dove era approdato Puškin un secolo prima.

I profughi avanzavano tra i boschi, ogni tanto qualche fuoco, piccoli villaggi. Scene miserande. Un trattore prodotto forse ai tempi di Stalin trascinava con un cavo le auto che tentavano di arrampicarsi su una strada ripidissima, fangosa, di fortuna, per evitare i proiettili dei georgiani.

Due militari russi con un cappotto scamosciato nero lungo fino ai piedi, collo di pelo bianco, colbacco, chiedevano i documenti. All’ospedale non c’era riscaldamento, su ogni letto quattro coperte, luce debolissima, medicine finite.

Zviad Gamsakhurdia

In Georgia intanto era arrivato al potere Zviad Gamsakhurdia, figlio di uno scrittore famoso, traduttore di Dante, lui stesso filologo e traduttore di Shakespeare. Era stato membro clandestino di Amnesty, poi tra i fondatori del Gruppo di Helsinki per i diritti umani. Non voleva essere intervistato.

Alla fine mi aveva ricevuto in un grande salone, da solo, seduto alla testa di un tavolo interminabile equivalente a quelli di Putin oggi. In poco tempo le sue promesse di indipendenza e democrazia avevano prodotto un sistema autoritario, i suoi avversari lo contestavano con i cortei e le armi. Dopo un anno era già in fuga, accolto in Armenia, respinto in Azerbaigian, per approdare nella insofferente, violenta Cecenia. La sua morte veniva raccontata come un suicidio o alternativamente un omicidio. Molti anni dopo, nella devastata Cecenia, era stato individuato il luogo della sepoltura.

La guerra fratricida jugoslava

Sempre nel 1991 cominciava la guerra fratricida nella Jugoslavia mentre in agosto a Mosca un piccolo gruppo di gerarchi tentava di rovesciare Gorbaciov. Tra di loro c’era anche il ministro degli Interni Boris Pugo.

La divisione corazzata che aveva affiancato i golpisti rientrava rapidamente in caserma. Un mezzo blindato recalcitrante si bloccava oscillando sui cingoli come una culla, fermando tutta la colonna.

Pugo uccideva la moglie e poi puntava la pistola contro di sé. Eltsin saliva su un carro armato, mentre un soldato con una piastra di metallo lo proteggeva, e sostituiva Gorbaciov. Il partito comunista veniva sciolto. Ma quella sera per le vie di Mosca non c’erano persone festanti, nella piazza dedicata alla rivoluzione d’ottobre si contavano esattamente ventidue persone. Settanta anni di realtà e propaganda sovietica avevano svuotato gli animi di un popolo. A fine dicembre la bandiera rossa sul Cremlino veniva ammainata.  

Crollava l’impero e intanto la Jugoslavia continuava a decomporsi con brutalità. A Belgrado comandava Milošević, figlio di un padre suicida. A Zagabria comandava Tudjman, anche lui con un padre suicida dopo aver ucciso la moglie.

Ana, studentessa di medicina figlia del generale Mladić, moderno Attila dei Balcani, si suicidava con la pistola di suo padre. Mentre a ridosso della musulmana Sarajevo assediata, nella minuscola repubblica serba di Pale, si suicidava il vicepresidente Nikola Koljević, professore di letteratura inglese. Anche lui come il georgiano Gamsakurdia studioso di Shakespeare. La malinconia si mescolava con la tragedia.

Anche lì secondo la tradizione nazionalista di tutte le chiese ortodosse i pope serbi benedivano le armi che sparavano sull’ospedale di Sarajevo, dove veniva distribuita l’acqua, tra i miseri banchi del mercato. Oggi Kirill a suo modo benedice la guerra. Una lettera di teologi ortodossi ha già raccolto 1.260 firme di aperta contestazione. Alcuni religiosi hanno già optato per il patriarcato di Costantinopoli. Ma la frattura va oltre la religione.  

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