Introduzione (di Enrico Letta)

Lo scorso 31 maggio – a distanza di oltre tre mesi dall’invasione dell’Ucraina da parte delle truppe russe e a due e mezzo dal nostro precedente incontro con Filippo Andreatta incentrato sulla guerra e le prospettive della Difesa europea, abbiamo chiesto al nostro interlocutore e vicepresidente dell’Arel di offrirci un aggiornamento della situazione sul campo. In particolare, di spiegarci le ragioni e le modalità della straordinaria resistenza dell’Ucraina, che forse pochi avevano previsto in questa misura. Sicuramente non l’aveva prevista Vladimir Putin.

È evidente che, rispetto all’inizio della guerra, molte cose sono accadute in Europa e tra i paesi dell’Unione: questo evento improvviso e traumatico ha imposto a tutti un ripensamento e anche un’accelerazione di processi non più rinviabili. Quanto accaduto nell’ultimo Consiglio Ue – con la decisione di dare lo status di candidato all’adesione a Ucraina, Moldavia e Georgia – è un passo storico per proteggere la libera volontà di quei popoli di scegliere i valori europei. La strada giusta per rafforzare l’Europa e il suo modello non soltanto nel continente, ma nel mondo. Dopo la Brexit, dopo il Covid, adesso con una guerra alle porte di cui ancora non si intravede la fine, non c’era davvero tempo da perdere. Il tempo è qui. Ora. Bene ha fatto Emmanuel Macron a prendere in mano il vessillo europeo e tentare il passo netto in avanti. I grandi paesi fondatori e gli altri che vorranno seguire devono procedere da subito con le cooperazioni rafforzate e uscire dalla gabbia dell’unanimità, con o senza cambiamento dei trattati. Continueremo a sostenere l’Ucraina e il suo legittimo diritto a difendersi.

Nelle pagine che seguono Filippo Andreatta – che ringrazio moltissimo per la disponibilità e la competenza che ogni volta ci regala – ci spiega l’evoluzione del conflitto e l’impatto che esso sta avendo sul sistema delle relazioni internazionali. La continuazione della guerra, infatti, sta modificando in modo significativo ruoli e prospettive, compresi quelli della Nato e delle Nazioni unite. Il mondo è in movimento, cerchiamo di capirne tutti i risvolti e, insieme ai nostri partner, di guidarlo il più possibile in direzione di un equilibrio stabile, senza il quale la pace sarà sempre in pericolo.

Gli effetti dell’invasione

Relazione (di Filippo Andreatta)

L’aggressione russa dell’Ucraina il 24 febbraio ha modificato significativamente il corso della politica internazionale. Già dal 2008 – dopo la delusione per gli interventi in Afghanistan e Iraq e l’inizio del ritiro da questi paesi, gli Stati Uniti hanno cominciato a chiudere il loro “momento unipolare” scaturito dal collasso dell’Unione sovietica. Dal 2008 gli Stati Uniti si sono concentrati sulla politica interna e sulle varie crisi che si sono succedute (la grande recessione, l’elezione di Donald Trump, la pandemia, black lives matter, la crisi del 6 gennaio) rinunciando a utilizzare la loro leadership politica e militare per plasmare le varie aree del mondo e adottando una postura reattiva e non più egemonica. Questo ha consentito l’emergere di un sistema più multipolare, con un ruolo più assertivo di potenze regionali quali Russia, Turchia, India e Cina. Gli Stati Uniti sono ancora l’unica potenza presente in tutte le aree del mondo, ma, non esercitando più una politica egemonica, potremmo definire il sistema di oggi uni-multipolare.

Nel periodo 2008-2022 questo sistema è stato relativamente pacifico. La Russia in particolare ha utilizzato la forza nel suo “vicino estero” in Georgia e Crimea e anche in Siria, ma senza un attacco plateale alle basi dell’ordine internazionale e con obiettivi relativamente modesti e circoscritti. L’aggressione su larga scala e non provocata dell’Ucraina, negata spudoratamente fino a poche ora prima, ha invece chiuso un’epoca di relativa stabilità internazionale, inaugurando un periodo di conflitto inedito dalla fine della Guerra fredda. L’invasione russa ha violato la sovranità ucraina, erodendo il diritto internazionale e minacciando quell’ordine europeo costruito a Helsinki (insieme all’Unione sovietica) che escludeva modifiche di confine ottenute con la forza. È stato anche violato il Memorandum di Budapest del 1994 in cui la Federazione russa si impegnava a garantire la sicurezza ucraina in cambio del disarmo nucleare di quest’ultima.

Inizialmente, l’implausibile pretesto per l’invasione era la presunta de-nazificazione dell’Ucraina, ma l’obiettivo è diventato più chiaro il 10 giugno, quando il presidente Putin ha assimilato la conquista dell’Ucraina alla conquista dell’Ingria (dove fu fondata San Pietroburgo nel 1703) da parte di Pietro il Grande durante la Grande guerra del nord del 1700-1721. La guerra di conquista non solo è vietata dalle Nazioni unite, ma è anche il pilastro fondamentale sul quale si è retto l’ordine internazionale dalla fine della Seconda guerra mondiale. Una simile sfida alle regole della società internazionale non sarebbe stata possibile in un sistema unipolare nel quale un egemone l’avrebbe impedita, e dimostra come il sistema internazionale stia transitando verso il multipolarismo.

In Europa l’invasione russa ha scatenato ansie significative, come dimostrano la richiesta di adesione di Finlandia e Svezia alla Nato e il rafforzamento di quest’ultima del proprio confine orientale. Nonostante le tensioni in Europa, però, non siamo tornati al bipolarismo della Guerra fredda e potenze emergenti come India e Cina hanno preferito non prendere posizione, mentre anche stati tradizionalmente filo-americani come Israele e Arabia Saudita sono rimasti alla finestra. Mentre i sistemi bipolari (come quello della Guerra fredda) e unipolari (come quello del post Guerra fredda tra 1991 e 2008) tendono a essere sistemi globali, i sistemi multipolari sono più frammentati e ciascuna regione può seguire le proprie dinamiche senza necessariamente influenzare le altre.

Dopo l’inizio dell’invasione poi, alla violazione del diritto internazionale si sono aggiunte molteplici e sistematiche violazioni del diritto umanitario, con attacchi indiscriminati contro obiettivi civili, inclusi ospedali e scuole, e brutali esecuzioni di massa. Al 20 giugno ci sono stati 4.500 civili uccisi accertati dalle Nazioni unite, ma il numero reale è quasi sicuramente molto più elevato. I profughi sono più di 13 milioni, mentre i deportati in Russia sono migliaia. Le atrocità, documentate dai media internazionali e da organizzazioni non governative indipendenti quali Human rights watch e Amnesty international, hanno poi innescato l’inchiesta ufficiale del Tribunale penale internazionale che accerterà eventuali responsabilità individuali e che, anche se la Russia non riconosce la corte, esporrà eventuali colpevoli di crimini di guerra alla giurisdizione universale da parte della comunità internazionale.

Particolarmente cinico è, infine, l’utilizzo strumentale delle esportazioni energetiche russe e anche l’interferenza con quelle agricole ucraine, che rischia di provocare crisi alimentari in molti paesi meno sviluppati. La reazione ucraina è stata esemplare, sin dalla storica decisione del presidente Zelensky di rimanere al suo posto rifiutando la proposta americana di evacuazione, e pienamente coerente con il diritto di autodifesa individuale e collettiva. Per lo stesso principio, sancito dall’articolo 51 delle Nazioni unite, è stato legittimo l’aiuto che sin da subito gli Stati Uniti e l’Europa hanno fornito a Kyiv.

Per quanto riguarda l’Italia, la Costituzione all’articolo 11 stabilisce il rifiuto delle guerre offensive come quella scatenata dalla Russia e invita a «promuovere e favorire» le organizzazioni internazionali rivolte ad assicurare la pace e la giustizia tra le Nazioni. Il richiamo dei padri costituenti era a organizzazioni di sicurezza collettiva come le Nazioni unite (che con soli cinque paesi contrari hanno condannato l’aggressione russa con una risoluzione dell’Assemblea generale il 2 marzo) e quelle di difesa collettiva come la Nato (che ha cominciato a supportare l’Ucraina sin dal 24 febbraio). Una pace ingiusta è infatti destinata a essere precaria, perché inaccettabile per una delle parti.

Anche se i russi prevalessero sul campo, la popolazione ucraina continuerebbe a combattere. Come ha affermato il presidente Draghi nelle sue dichiarazioni al Senato il 21 giugno: «Solo una pace concordata e non subita può essere davvero duratura». Al tempo stesso, per resistere a questa aggressione l’Ucraina non è in questo momento nella posizione di poter fare concessioni, quindi per ora la guerra durerà. La durata della guerra non è nell’ordine di grandezza delle settimane. Come diceva Enrico Letta nell’introduzione, anche dopo che la guerra armata sarà finita, è probabile che ci sia una polarizzazione, un conflitto, una competizione politica con la Russia di Putin. Questo perché il suo regime si sta caratterizzando per un crescente autoritarismo interno e un crescente espansionismo esterno. I due elementi si sono fusi nel regime putiniano rendendolo incompatibile con l’ordine europeo e fino a che durerà quel regime americani ed europei attueranno politiche di contenimento.

Non tutte le autocrazie sono aggressive, e anzi alcune possono essere particolarmente prudenti, ma nel caso della Russia di Putin, che Samuel Huntington avrebbe definito un regime “pretoriano”, la repressione interna si giustifica con la minaccia esterna, mentre la ricerca di consenso interno si ricerca con presunti successi militari esterni. Da questo punto di vista ci saranno delle tensioni davanti alle quali l’Europa deve rimanere unita e sviluppare politiche comuni della difesa e dell’energia, rendendosi autonoma a livello strategico e capace di difendere i propri interessi. Visto che non è possibile farlo con le istituzioni attuali, Macron ha sposato la causa delle cooperazioni rafforzate e di una Convenzione per la revisione dei trattati. C’è una concreta possibilità di avere un’Europa a centri concentrici, in cui ci sia una membership larga e aperta all’ingresso di Ucraina, Moldova e Georgia, ma anche un nocciolo duro (dei fondatori più i paesi iberici) che procede con decisioni comuni prive del diritto di veto sulla difesa e sull’energia. Solo in questo modo l’Europa potrà difendere la propria sovranità, e i propri valori democratici e liberali.

La superiorità militare delle democrazie

La principale sorpresa di questi primi mesi riguarda le notizie sul campo, perché ci si aspettava che la sproporzione di risorse a favore della Russia avrebbe prodotto una vittoria di quest’ultima, che poi avrebbe condotto a una seconda fase di guerriglia e di resistenza ucraina ma solo dopo una rapida occupazione di Kyiv. Sul campo non era prevedibile la sorprendente efficacia della difesa convenzionale dell’Ucraina, che infatti nel 2014 ha avuto una reazione relativamente debole. Ma l’Ucraina del 2022 è diversa da quella del 2014. La democratizzazione iniziata a Euromaidan ha trasformato le sue istituzioni, mentre il prolungato scontro con la Russia e i suoi alleati nel Donbass ha rafforzato la sua identità nazionale.

Su questo argomento c’è una parte della letteratura delle scienze sociali che ipotizza una superiorità militare delle democrazie, soprattutto nelle guerre convenzionali se non in quelle di guerriglia (come in Iraq o in Afghanistan) nelle quali l’opinione pubblica tende a stancarsi. Ovviamente, le scienze sociali possono sbagliare, sbagliano nell’interpretare il passato quindi figuriamoci a prevedere il futuro, però è una letteratura utile da condividere e analizzare per riflettere sulla situazione attuale.

L’articolo seminale su questo tema, intitolato Powerful pacifists, è del professor David Lake che, all’indomani della fine della Guerra fredda, svolgeva questa analisi delle guerre alle quali hanno partecipato le democrazie dal 1848 (ovvero da quando esistono) fino al 1992. Lake rilevava che in 23 casi su 31 in cui una democrazia aveva combattuto una guerra, l’aveva vinta. In tre casi era impossibile determinare un vincitore. Le cinque eccezioni negative sono la Guerra greco-turca di fine Ottocento e quella russo-finlandese del 1939, in cui c’era una sproporzione di risorse enorme (e la Finlandia ha resistito comunque più del necessario all’epoca della Guerra d’inverno), il caso delle due guerre in cui l’India ha perso negli anni Sessanta (una volta contro la Cina nel 1962 e una contro il Pakistan nel 1965), e poi quello della Guerra del Vietnam (che potrebbe anche essere ascritta tra le guerre di guerriglia e non tra quelle convenzionali). Nei casi di vittoria, spesso le democrazie erano grandi potenze con due guerre che hanno coinvolto gli Stati Uniti, due la Francia, due il Regno Unito, cinque un’ampia coalizione di tutte le democrazie. Ci sono però anche casi di vittorie di piccole e medie potenze democratiche come, ad esempio, la Grecia nelle due guerre balcaniche nel 1912 e 1913, l’India contro il Pakistan nel 1971, Israele in quattro conflitti araboisraeliani, la Polonia contro la Russia nel 1920, la Spagna contro il Marocco nel 1910, la Turchia contro la Grecia nel 1974.

Quattro motivazioni

I motivi che potrebbero giustificare questa sorprendente capacità delle democrazie di essere efficaci in battaglia sono molteplici. Partendo dal livello micro per arrivare a quello più macro i temi sono quattro: la motivazione dei soldati, i rapporti tra vertici civili e militari, una più accurata rappresentazione della realtà, la solidarietà tra democrazie.

Il primo motivo ha a che fare con la motivazione dei soldati. I militari in una democrazia sono più motivati, perché partecipano al sistema politico che difendono e quindi combattono per loro stessi, mentre i militari in una autocrazia combattono per conto di un dittatore che potrebbe essere percepito come distante. Proprio per la natura stessa della democrazia, inoltre, c’è una maggioranza che supporta la guerra, cosa che ovviamente non si sa quando si tratta di autocrazie, perché l’opinione pubblica non viene consultata direttamente senza filtri o brogli. Ci sono, ovviamente, autocrazie capaci di motivare i loro soldati (basta pensare alle potenze dell’Asse nella Seconda guerra mondiale) ma non sembra essere questo il caso della Russia di Putin dove, al contrario, abbiamo testimonianze quotidiane di un morale delle truppe particolarmente basso, con diserzioni e ammutinamenti all’ordine del giorno. C’è dunque una disparità nella motivazione dei soldati: i soldati democratici sono più convinti e quindi combattono con più ardore.

Una seconda motivazione riguarda le relazioni tra il governo civile e i militari che nelle democrazie sono di pacata separatezza; i militari non fanno politica e i politici non interferiscono con le azioni militari. In questo modo, i militari possono professionalizzarsi e specializzarsi nell’uso della forza militare proprio dal punto di vista tecnico. Al contrario, nelle dittature c’è una continua interferenza, normalmente, verso i vertici militari da parte dei dittatori, che con purghe frequenti tendono a preferire la lealtà alla competenza, ma, qualche volta, c’è anche qualche colpo di stato e, quindi, una diffidenza reciproca che può inficiare la qualità delle scelte strategiche. Nel caso dell’Ucraina recente, cioè post-Euromaidan, essa ha sposato, in parallelo con il processo di democratizzazione, modelli di organizzazione militare moderni e occidentali, basati su due indicatori importanti: la capacità di delegare ai comandanti sul terreno le decisioni, promuovendo la loro iniziativa che consente di sfruttare le opportunità che emergono sul campo di battaglia, e la capacità di coordinare varie armi per massimizzarne l’efficacia, riuscendo a sincronizzare l’uso di fanteria, di artiglieria e di aviazione e, in questo caso, anche di droni. Questi due elementi, “tattica della delega” e “armi combinate”, emersi per la prima volta alla fine della Prima guerra mondiale, costituiscono il “modello moderno” dell’uso della forza.

A fronte di una capacità dell’Ucraina di adottare degli standard simil-occidentali, l’esercito russo sembra ancorato al passato: è eccessivamente centralizzato, non coordina artiglieria e fanteria (come nella prima fase della Prima guerra mondiale, fino al 1917) e sembra una macchina da distruzione che prima bombarda e poi, con la fanteria, libera delle macerie. Questa incapacità di manovrare e di utilizzare solo la sproporzione di potenza di fuoco di cui è dotata ha sorpreso molti commentatori. Al tempo stesso, tutti gli eserciti riflettono la società di cui fanno parte e sappiamo che la società russa è corrotta (e questo sicuramente non aiuta l’efficacia degli equipaggiamenti e della logistica) e vittima di nepotismo (che alla lunga inficia, ovviamente, la qualità della leadership militare). Gli oligarchi non sono sicuramente i migliori professionisti in questo campo e ciò si vede dal fatto che centinaia di corazzati russi sono stati abbandonati perché semplicemente si rompevano o finivano la benzina, dimostrando un pessimo stato della manutenzione e una logistica inefficiente. Un simbolo di questa condizione è una famosa foto dell’inizio del conflitto nella quale un contadino ucraino requisisce un corazzato trainandolo con il suo trattore, da cui è stato tratto un francobollo commemorativo.

In terzo luogo, a livello strategico, i vantaggi delle democrazie sono rappresentati dalla presenza di un mercato delle idee, che non è perfetto ma produce un dibattito che migliora la qualità delle informazioni. Nelle democrazie il parlamento controlla il governo, l’opposizione contrasta la maggioranza, la stampa pubblica le proprie fonti e tutta questa libertà di informazione contribuisce a restituire un quadro più accurato della realtà, facilitando chi prende decisioni strategiche perché, più o meno, ha un giudizio e una stima più dettagliata della situazione sul campo. Viceversa, nelle dittature c’è una centralizzazione dell’informazione che può essere distorta per compiacere il dittatore di turno. Nel caso di Putin è evidente che è stato molto male informato, visto che al lancio della campagna del 24 febbraio ha notevolmente sopravvalutato il proprio esercito e ampiamente sottovalutato la resistenza militare dell’Ucraina. Come dimostrano i piani militari requisiti agli ufficiali russi, Putin si aspettava davvero di vincere in 72 ore e che la minoranza russofona accogliesse i suoi soldati come liberatori. E invece anche la più grande città russofona, Kharkiv, si è subito schierata dalla parte di Kyiv e ha resistito stoicamente all’assedio.

Un’ulteriore conseguenza di questa migliore informazione che circola nelle democrazie è che Zelensky ha potuto attingere alla propria popolazione di fronte all’invasione, mobilitando tutti i maschi tra i 18 e i 60 anni e reclutandone una gran parte, ponendo le basi per l’arrivo in estate di centinaia di migliaia di nuovi combattenti in addestramento da febbraio. Al contrario, la propagando russa, in maniera un po’ sprezzante, non parla di guerra ma di una cosiddetta “operazione speciale” e fatica ad ammettere che ha fallito e che adesso ci sarebbe bisogno di una mobilitazione. C’è quindi un problema rispetto al numero dei soldati russi ma Putin ha fretta e, pertanto, i rimedi a questa mancanza numerica non sono certamente i migliori: ci sono delle “unità Frankenstein” che vengono create dalla somma di pezzi di unità degradate in battaglia (che però non sono mai state addestrate insieme e probabilmente non hanno una grande efficacia), ci sono mercenari siriani e ceceni (che dopo la conquista di Mariupol sono stati spostati e combattere nel Donbass), ci sono i coscritti delle Repubbliche separatiste e i volontari russi tra i 40 e i 60 anni. Da parte russa c’è un problema di risorse umane disponibili abbastanza evidente e che inficia l’efficacia complessiva delle operazioni.

In quarto luogo, le democrazie sono solidali e tendono ad allearsi tra di loro, specialmente (come in questo caso) quando c’è una guerra di aggressione. La cosa forse più decisiva in questo conflitto, come anche nelle Guerre mondiali e nella Guerra fredda, è che si è generata una ampia coalizione, con più di trenta paesi che forniscono, individualmente o tramite l’Ue, aiuti militari e civili all’Ucraina. Nel complesso, secondo il Kiel institute for the world economy, gli impegni sinora arrivano a 75 miliardi di dollari, divisi in circa 30 miliardi di aiuti finanziari, 12 di aiuti umanitari e 33 di aiuti militari. I più generosi sono gli Stati Uniti, che forniscono circa metà degli aiuti, mentre in termini percentuali sul proprio Pil i più generosi sono la Polonia e i Paesi Baltici. L’Italia, che è inibita dall’eterogeneità della maggioranza di governo, ha sinora fornito meno dell’1 per cento del totale, anche se ha svolto un ruolo politico importante nel mobilitare il supporto dell’Unione europea. Questo fa sì che si possa essere relativamente ottimisti sul futuro, perché l’Ucraina col tempo mobilita risorse umane e accumula gli aiuti dall’estero, diventando più forte, mentre la Russia viene progressivamente indebolita dalle sanzioni che le vengono imposte.

Già le sanzioni del 2014, per quanto timide, hanno avuto un effetto perché, dall’inizio di giugno, i russi stanno cominciando a impiegare dei T-62 che, come dice il nome stesso, sono dei tank costruiti negli anni Sessanta, che non hanno componenti elettroniche, mentre i carri più moderni sono dipendenti dalla tecnologia occidentale dual-use che gli è stata già tolta con le sanzioni per l’annessione della Crimea. Le sanzioni del 2022 non hanno precedenti in quanto a numero dei paesi che le adottano e ampiezza delle misure, che includono la finanza e le esportazioni di energia. Il Fondo monetario internazionale stima che quest’anno il costo inflitto all’economia russa sarà pari a 8,5 punti del Prodotto interno lordo. Con il tempo, i costi per la Russia della sua invasione sono destinati ad aumentare.

L’andamento della guerra sul campo

Per tutti questi motivi la presunta superiorità russa è rimasta sulla carta e non sul campo. Dal 24 febbraio a oggi vediamo come si conferma il fatto che l’Ucraina è un esempio virtuoso della capacità militare democratica. Si può dividere il corso dei combattimenti in tre fasi. La prima offensiva russa comincia il 24 febbraio e termina il 25 marzo, quando Putin annuncia che in realtà non si trattava di una denazificazione dell’intera Ucraina, come dichiarato all’inizio, ma della volontà di occupare l’intero Donbass. L’obiettivo della prima fase era quello di occupare velocemente Kiev, proclamando un nuovo governo nel giro di 72 ore, per poi occupare l’intera Ucraina con attacchi da assi multipli: dal nord su Cherniv, Sumy e Kharkiv e dal sud su Zhaporizia, Mykolaiv e Mariupol. Questo piano fallisce abbastanza miseramente, come dimostrano i cimiteri di tank rinvenuti successivamente dagli ucraini e come simboleggiano le immagini di una colonna di tank russi priva di protezione di fanteria o di supporto aereo distrutta a Brovary a metà marzo.

Particolarmente efficaci sono risultati i missili anticarro di nuova generazione (come i Javelin americani) che colpiscono dall’alto il tetto della torretta, che è particolarmente vulnerabile nei carri russi. Notevole è anche l’episodio della nave Moskva, ammiraglia della flotta del mar Nero, che aveva ottenuto uno sprezzante rifiuto di resa dalla piccola guarnigione ucraina dell’isola dei Serpenti, e che viene affondata il 13 aprile e per la quale è stato prodotto un francobollo commemorativo. La frustrazione è tale da indurre i russi a prendersela con i civili, come ad esempio a Bucha, in cui sono state uccise centinaia di vittime inermi. Questo dimostra, da un lato, la mancanza di disciplina delle unità russe e, dall’altro, che sono anche, in qualche modo, sorprese e spaventate dalla resistenza ucraina, o anche solo desiderose di vendetta per le perdite subite sul campo.

Dopo questa prima fase Putin decide di occuparsi soltanto del Donbass, facendo un passo intermedio molto importante perché questa seconda offensiva, che dura un mese abbondante, doveva comprendere una vittoria su tutte e due le regioni del Donbass (Donetsk e Luhansk), con un attacco che partiva da Nord, da Kharkiv, verso Izyum, per poi andare dritto verso Donetsk e occupare rapidamente l’intero Donbass. Questa offensiva, invece, si è fermata all’attraversamento del fiume Siverskyi Donets, che i russi non sono stati in grado di superare nonostante ci abbiano provato quattro volte. In particolare, in uno dei tentativi, effettuato vicino a Bilohorivka a metà maggio, un think tank americano, l’Institute for the study of war, stima che sia stato annientato totalmente un battaglione russo, colto impantanato nel fango dall’artiglieria ucraina, che avrebbe ucciso 485 soldati su 550 e distrutto 80 pezzi di equipaggiamento.

A questo punto parte una terza fase nella quale le ambizioni russe vengono ulteriormente ridotte, mentre viene accentuato l’uso dell’artiglieria, come già a Grozny (1999), Aleppo (2016) e Mariupol. La perdurante incapacità di controllare i cieli rende infatti vulnerabile l’avanzata con i corazzati, con una stima di circa 1.000 tank persi dall’inizio del conflitto (774 dei quali documentati fotograficamente dal blog Oryx), mentre le già menzionate carenze di fanteria inducono all’uso massiccio di artiglieria per radere al suolo villaggi e città prima di occuparne le macerie. Non solo si usa massicciamente l’artiglieria, ma si cominciano ad adoperare delle munizioni particolarmente distruttive. Si tratta, ad esempio, delle bombe termobariche, che creano una depressione ambientale, per cui si auto-alimentano con l’ossigeno e delle bombe al fosforo che, se lanciate per terra, hanno un effetto particolarmente distruttivo, mentre, se sono detonate per aria, hanno un effetto incendiario su qualsiasi cosa venga a contatto con il fosforo incandescente. In molteplici casi, sono state anche utilizzate bombe a grappolo su obiettivi civili e militari. Il progressivo esaurimento degli arsenali di moderne bombe “intelligenti”, infine, ha anche indotto l’esercito russo a utilizzare antiquate munizioni “stupide” e molto meno precise, con maggiori danni collaterali.

A partire dall’inizio di maggio, la Russia si concentra sull’occupazione della sola provincia di Luhansk, tentando di circondare Severodonetsk, e non più su tutto il Donbass. L’occupazione di Severodonetsk, a seguito della ritirata degli ucraini, ha impiegato un mese e mezzo per una cittadina della dimensione di Novara, e non prima che la resistenza sfiancasse parecchie unità russe. Si è quindi partiti dalla prima offensiva con l’ambizione di fare manovre straordinarie, di centinaia di chilometri, per poi passare alla seconda offensiva, quella sconfitta dagli ucraini a metà maggio, in cui c’era questo tentativo di procedere per decine di chilometri e arrivare da Izyum a Donetsk. Ora, con questa terza offensiva, da settimane i russi si stanno occupando di 3/4 chilometri alla volta. Per cui, è vero che i russi stanno adesso avanzando sul campo in quella parte di Ucraina, ma a una lentezza tale da non determinare nessuna offensiva decisiva. Ci sono poi così tante forze concentrate solo per questo attacco che gli ucraini, nel frattempo, sia nel sud a Kherson sia nel nord a Kharkiv, hanno constatato la debolezza russa in quei settori e sono passati alla contro-offensiva.

La vittoria nella battaglia di Kyiv ha allontanato lo spettro che l’Ucraina potesse perdere la propria indipendenza. Con il fallimento della seconda offensiva russa, l’Ucraina ha anche guadagnato la possibilità di non rimanere bloccata dal mare perché Odessa non è più direttamente minacciata e, anche nel sud, gli ucraini sono passati all’offensiva così come a Kharkiv nel nordest. Ci sono due provincie, Kherson e Zhaporizia, oltre a quelle del Donbass, che sono in gran parte sotto il controllo della Russia, ma in esse è già attiva la resistenza ucraina. Quella di oggi è una guerra molto più circoscritta e molto meno minacciosa per l’indipendenza Ucraina rispetto all’inizio delle ostilità. È una guerra più alla pari, anche perché stanno arrivando le armi dell’America e dell’Europa che determineranno ancora più equilibrio tra le due parti.

Le stime ufficiali dell’intelligence americana dicono che ci sono stati 15mila caduti russi nei primi tre mesi di guerra, esclusi i feriti e i prigionieri. Questo numero è superiore a quello dei caduti ucraini, stimati tra i 5mila e i 10mila, sempre secondo il Pentagono. Questo numero indica che i caduti russi sono più di quelli sostenuti in dieci anni di guerra in Afghanistan e, come soprattutto i più anziani tra noi ricorderanno, l’emorragia di vite umane è stata un fattore determinante nella caduta dell’Urss (sempre sottolineando che l’Urss le ha perse in dieci anni, mentre Putin in tre mesi).

Ancora più sorprendente è l’identità di queste vittime, tra le quali troviamo una decina di generali e una cinquantina di colonnelli, a testimonianza dell’ottima intelligence ucraina e del fatto che i comandanti russi devono guidare le truppe in prima linea, per compensare la mancanza di motivazione. Inoltre, secondo una stima ufficiale del ministero della Difesa inglese, nel complesso il corpo degli ufficiali ha subito perdite devastanti (questo termine viene proprio utilizzato il 30 maggio). Sempre una stima governativa americana afferma che i russi hanno perso tra un terzo e un quarto dei loro equipaggiamenti. Il grafico si basa sui dati dalla già citata fonte aperta Oryx, che raccoglie prove fotografiche di ogni singola piattaforma distrutta, e compara le perdite di equipaggiamento delle due parti nei primi tre mesi di guerra. Il numero di mezzi russi distrutti è in rosso, mentre in verde c’è il numero di mezzi ucraini, da cui si nota la migliore qualità delle forze ucraine che si sono sapute reinventare nell’ultimo decennio. Si nota anche che la prima offensiva è stata molto distruttiva per i russi, la seconda un po’ meno, mentre adesso la curva accelera nuovamente e le perdite per conquistare Severodonetsk sono ai livelli della battaglia di Kiev.

Bisogna chiedersi per quanto ancora la Russia riuscirà a sostenere questo ritmo. Di sicuro il Cremlino non è soddisfatto visto che pare abbia sostituito, per tre volte in tre mesi, il capo delle operazioni in Ucraina.

Le prospettive di pace

Sempre la letteratura politologica sul rapporto tra le democrazie e la guerra sottolinea un secondo elemento molto rilevante per il prosieguo del conflitto. Quella stessa letteratura, che analizza le virtù belliche delle democrazie, racconta anche di una certa loro rigidità diplomatica. Una volta che le democrazie si sono mobilitate in una cosa così costosa come una guerra, fanno fatica a fermarsi, a tornare indietro e trovare dei compromessi. Non è un caso che la prima democrazia mondiale, gli Stati Uniti, quando entra per la prima volta in una guerra europea, nel 1917, introduce un concetto rivoluzionario che le potenze europee, un po’ conservatrici e un po’ metternichiane, non avrebbero mai immaginato: l’idea di resa incondizionata. Tale idea è stata poi riproposta, ovviamente, anche nel 1941, all’indomani dell’attacco su Pearl Harbor.

L’idea di una certa ambivalenza delle democrazie, riluttanti a entrare in guerra ma intransigenti una volta che vi sono entrate, è un’idea antica, che viene dal Diciottesimo secolo con David Hume, che diceva, nel linguaggio settecentesco, che le democrazie alternano «compiacenza supina», quando sono in tempo di pace, a «veemenza imprudente», quando sono in tempo di guerra. Il grande analista della democrazia, Alexis de Tocqueville, sottolineava come le democrazie avessero due contrapposte tendenze di fronte alle guerre: entrano troppo tardi perché sono distratte dalle loro questioni interne ma, una volta entrate, escono troppo tardi perché vogliono una resa senza condizioni. Più recentemente, George Kennan sosteneva nel suo libro American diplomacy del 1951 che «le democrazie amano la pace. Non amano andare in guerra. Sono lente a rispondere alle provocazioni. Quando sono state provocate fino al punto di sguainare la spada, non perdonano facilmente i nemici che hanno provocato una simile situazione. […] La democrazia combatte con rabbia, combatte proprio perché è stata costretta a entrare in guerra. Combatte per punire quella potenza che è stata così imprudente e ostile da provocarla, per impartirgli una lezione che non dimenticherà, per evitare che l’eventualità possa ripetersi nuovamente. Una simile guerra deve essere portata alle sue estreme conseguenze».

Theodore Lowi sottolinea nel suo libro The end of liberalism del 1969 che le democrazie devono “vendere” al pubblico le loro policy, ma una politica di guerra è molto costosa, quindi tendono a sovra-venderla, a giustificarla sollevando questioni di vita o di morte e demonizzando l’avversario. Dopo aver demonizzato l’avversario, si fa fatica a trovare un compromesso, perché, per esempio, se si dice che Saddam Hussein è come Hitler, poi non si riesce a sedersi a un tavolo per trattare con un Hitler. Quindi, è probabile che il governo ucraino, che ha già annunciato che sottoporrebbe al referendum qualsiasi accordo, farebbe molta fatica ad accettare, almeno adesso, delle concessioni territoriali, proprio perché ha subito tanti morti civili e militari e deve, in qualche modo, giustificarli di fronte all’opinione pubblica. Se il governo si dimostrasse debole e propenso a eccessive concessioni, a questo punto del conflitto probabilmente rischierebbe di venire sostituito da fazioni più bellicose. Quindi anche in caso, e non è scontato, che l’attuale terza modesta offensiva russa abbia successo, questo non sarebbe sufficiente a indurre l’Ucraina a chiedere una tregua. Kissinger pertanto sbaglia quando suggerisce uno scambio fra territori e cessate il fuoco, non tanto perché questo scambio sembra immorale, ma perché non appare realistico, almeno per il momento. La comunità internazionale ha il dovere di favorire la pace e di cogliere ogni occasione per ridurre la violenza, ma l’Ucraina, nella sua sovranità, sembra preferire avere una migliore situazione sul campo prima di aprire una fase negoziale.

La guerra, purtroppo, sembra quindi destinata a durare a lungo, fino a che una delle due parti non ottenga una significativa vittoria sul campo (come potrebbe avvenire questa estate con una controffensiva ucraina) o fino a che entrambe le parti non esauriscano le risorse in una logorante guerra di trincea. Poi ci sono due scenari improbabili, ma pur sempre possibili. Da un lato, l’Ucraina potrebbe cedere non tanto per la propria volontà, ma perché i suoi alleati occidentali si distraggono, anche a causa della situazione economica peggiorata a causa del conflitto, e smettono di offrirle il loro decisivo supporto. Dall’altro lato, la frustrazione in Russia con gli errori di Putin potrebbe crescere fino a portare a un colpo di stato. Si tratta di eventualità da tenere in considerazione, ma che hanno una probabilità estremamente contenuta.

In Italia abbiamo una piccola esperienza che al momento del negoziato potrebbe tornare utile. Dopo il terrorismo anti-italiano che c’è stato in Alto Adige negli anni Sessanta, ci fu un modello, che potrebbe essere applicato per l’Ucraina, che è quello dell’accordo Moro-Weldheim del 1969. Questo trattato ha pacificato la violenza in Alto Adige, è garantito dalle Nazioni unite e concede in maniera parallela autonomia alla comunità italiana del Trentino (che in questo caso potrebbe essere il Donbass ucraino) e alla comunità tedesca dell’Alto Adige (che in questo caso potrebbe essere il Donbass russofono), senza modificare i confini. Si tratta, quindi, di un compromesso che non eroderebbe il principio per cui non si possono modificare i confini con la forza. Bisognerà trovare idee fantasiose, che non sono lo scambio di terra per la pace, ma lo scambio di sovranità per la pace. Lo stato centrale ucraino potrebbe cedere al Donbass e alla Crimea delle forti autonomie che non modificano i confini internazionali ma portano a un processo di scale di grigio nella sovranità. Anche nel processo di integrazione europea gli stati stanno trasferendo la sovranità verso l’alto. E con il trattato Moro-Weldheim l’Italia ha trasferito sovranità verso il basso, pacificando in tal modo la minoranza tedesca. Si tratta però di idee che sono ancora immature.

Mentre la pace richiede l’unanimità dei consensi, per la guerra è sufficiente che una delle due parti sia scontenta e disposta a usare la forza. Nel caso dell’Ucraina di oggi, pare che entrambe le parti siano intenzionate a continuare a combattere, e disposte a sostenere gli ingenti costi che questo comporta. La novità rispetto all’inizio del conflitto è che l’Ucraina sembra in grado di avere una possibilità di vincere, ha già sconfitto due offensive russe e potrebbe anche sconfiggere la terza, o annullarne gli effetti con una controffensiva estiva. Rispetto alle previsioni iniziali, una vittoria ucraina sembra quindi oggi possibile, anche a causa della natura democratica del regime. Una tale vittoria sarebbe anche auspicabile perché dimostrerebbe che l’aggressione non paga e l’ordine basato sulla non modificabilità violenta dei confini è ancora solido.

L’esito opposto, una vittoria di Putin, dimostrerebbe al contrario che l’uso della forza paga e che è possibile, come avveniva prima del 1945, modificare i confini con l’aggressione. Questo risultato sarebbe infausto non solo per l’Ucraina, ma anche per l’intera comunità internazionale che rischierebbe di trovarsi in futuro in balia di ambiziose potenze espansionistiche in Europa o in altre regioni del mondo.


Il testo in queste pagine è estratto dal volume “L’invasione russa e la resistenza dell’Ucraina”, di Filippo Andreatta ed Enrico Letta, pubblicato per la collana AREL Le Conversazioni (2022). AREL è l’Agenzia di ricerche e legislazione fondata da Nino Andreatta nel1976.

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