Mercoledì 22 giugno si è aperto a Pechino il XIV vertice dei Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica), il forum di cooperazione inaugurato nel 2009 che “rappresenta” il 40 per cento della popolazione (3,2 miliardi di persone) e il 23 per cento del Pil globale. La riunione si è tenuta (in videoconferenza, per le restrizioni anti-Covid della Cina) alla vigilia dei vertici del G7, che si svolgerà domenica 26 giugno in Germania, e della Nato, previsto per mercoledì 29 giugno in Spagna. In particolare l’Alleanza atlantica – secondo diverse fonti interne – per la prima volta nella sua storia inserirà la Cina tra le “preoccupazioni” del suo “Strategic concept”, il documento che delinea la strategia di sicurezza dell’organizzazione per i prossimi dieci anni.

Non stupisce dunque che, aprendo la riunione dei Brics, nel meno ottimistico dei discorsi pronunciati da quando, dieci anni fa, è diventato segretario generale del Partito comunista cinese, in un’orazione tutta politica, interamente calata nel clima di contrapposizione con gli Stati Uniti (mai citati direttamente), Xi sia tornato sulla Nato, stigmatizzando «i tentativi di espansione delle alleanze militari e la ricerca della propria sicurezza a spese di quella degli altri». Xi ha definito la guerra in Ucraina un «campanello d’allarme per il mondo» e si è chiesto: «Dove va il mondo: pace o guerra? Progresso o regressione? Apertura o isolamento? Cooperazione o confronto? Sono scelte dei tempi con cui ci confrontiamo».

Il presidente cinese ha ribadito ancora una volta l’opposizione del suo governo alle sanzioni, che «politicizzano e trasformano in un’arma l’economia», e al dominio del sistema finanziario internazionale da parte degli Stati Uniti, mentre diversi partecipanti al vertice hanno iniziato a discutere della possibilità di dar vita a un sistema internazionale di pagamenti alternativo allo Swift, dal quale la Russia è stata espulsa in seguito all’aggressione all’Ucraina.

Tutti e cinque i paesi Brics hanno manifestato la loro contrarietà alle sanzioni alla Russia per le loro ripercussioni sull’economia globale e ciò ha messo in evidenza la principale debolezza di questo strumento, che non è tanto quella di colpire sia il sanzionato sia il sanzionante, quanto piuttosto quella di contrapporre i paesi ricchi a quelli emergenti, le cui popolazioni risentono maggiormente degli aumenti dei prezzi delle materie prime. La leadership di Pechino lo sa bene e per questo in occasione di ogni consesso internazionale sta riproponendo una critica alla contrapposizione tra blocchi e un rafforzamento della cooperazione tra i paesi del sud del mondo, paesi al centro della rete globale di scambi e investimenti nella quale da anni Pechino svolge un ruolo da protagonista.

Alla Davos russa il “no” di Pechino a sanzioni e decoupling

Venerdì 17 giugno Xi Jinping è intervenuto in videoconferenza al XXV International Economic Forum di San Pietroburgo. Il presidente cinese ha stigmatizzato le tendenze al decoupling (la separazione tra economie finora unite dalla globalizzazione), ha criticato le sanzioni ed espresso fiducia nella capacità dell’economia cinese di continuare ad attirare massicci investimenti stranieri. «Dobbiamo rimuovere le barriere commerciali, mantenere la stabilità delle catene industriali e di approvvigionamento globali e lavorare insieme per affrontare le crisi alimentari ed energetiche sempre più gravi», ha affermato Xi.

  • Perché è importante

Xi ha utilizzato la “Davos russa” per lanciare al mondo un triplice messaggio: ribadire la solidità delle relazioni economiche e politiche con Mosca, appena diventata il primo fornitore di petrolio della Cina; ricordare agli Stati Uniti (mai citati espressamente nel suo discorso) i danni prodotti nell’economia globale da sanzioni e decoupling; rassicurare gli investitori internazionali sulle potenzialità di ripresa dell’economia cinese, messa a dura prova dalle rigide chiusure della strategia “contagi zero”.

  • Il contesto

Pechino attende di conoscere l’esito della revisione da parte dell’amministrazione Biden dei dazi imposti dal suo predecessore Trump su 350 miliardi di dollari di merci cinesi importate negli Stati Uniti, in vigore da quattro anni. Nei prossimi giorni potrebbe esserci un confronto telefonico tra Biden e Xi anche su queste misure protezionistiche, alle quali la Cina ha risposto con provvedimenti simili. Alle prese con un preoccupante aumento dell’inflazione, l’amministrazione democratica potrebbe procedere a una parziale rimozione delle tariffe. C’è chi spera che Pechino possa contraccambiare con maggiore generosità, innescando una “spirale positiva”.

Su un altro versante evocato da Xi, quello delle sanzioni, il confronto si fa sempre più duro. Il cotone del Xinjiang, un tempo il più caro del mondo, è diventato il più economico per effetto dello “Uygur Forced Labour Prevention Act”, la legge entrata in vigore negli Usa per contrastare il lavoro forzato nella regione del nord-ovest cinese. Attualmente 3 milioni di tonnellate di cotone giacciono invendute, perché i clienti stranieri non acquistano più il cotone del Xinjiang per il timore di incappare nelle sanzioni previste dalla nuova norma.

Yuan, di Lorenzo Riccardi

Negli Usa fanno i conti con l’inflazione da trade war

Il tasso di inflazione negli Stati Uniti ha raggiunto il mese scorso l’8,6 per cento, il maggior incremento su base annua dal 1981. All’origine di tale aumento ci sono diversi fattori: alcuni macroeconomici, come l’incremento della domanda aggregata nel paese derivante dai bassi tassi di interesse e una politica monetaria espansiva e un livello di occupazione a livelli record; altri di tipo geo-politico, come la guerra in Ucraina e le tensioni commerciali con la Cina.

Le relazioni economiche tra Stati Uniti e Cina sono mutate nel 2018 in quella che ormai è nota come trade war tra le due principali economie, con l’introduzione di dazi sull’importazione ampie categorie di beni.

Se si studia l’andamento dell’interscambio commerciale tra Washington e Pechino, è possibile notare l’impatto a breve termine delle misure restrittive americane: nel 2019, il totale dell’interscambio tra le due maggiori economie al mondo è stato pari a 542 miliardi di dollari, una riduzione su base nominale del 14,5 per cento rispetto all’anno precedente. Le esportazioni cinesi verso gli Stati Uniti si sono contratte del 13 per cento mentre il flusso opposto è calato del 21 per cento; il surplus commerciale della Cina derivante dagli scambi con gli Stati Uniti è diminuito da 323 miliardi del 2018 a 296 miliardi del 2019.

Nel 2021 l’interscambio con gli Usa ha superato i livelli precedenti alla guerra commerciale, attestandosi su 756 miliardi di dollari, 19 per cento di incremento rispetto all’inizio della guerra commerciale. Inoltre, anche il deficit commerciale, la cui riduzione era uno dei principali obiettivi dei dazi americani, ha segnato un valore record di 397 miliardi. Nei primi cinque mesi del 2022, il commercio tra Pechino e Washington ha già raggiunto i 314 miliardi di dollari, in rialzo del 12 per cento rispetto allo stesso periodo 2021.

Un’analisi pubblicata nel 2021 da Moody’s ha evidenziato come la maggior parte dell’incremento dei costi delle importazioni dalla Cina derivante dall’applicazione dei dazi sia stato sostenuto dagli importatori statunitensi e riversato successivamente sui consumatori americani. Con gli attuali livelli di inflazione, l’amministrazione Biden dovrà valutare la decisione di alleggerire e rimuovere una parte di tali dazi. In base ad alcuni analisti, una riduzione dei dazi sulle importazioni di beni cinesi potrebbe alleggerire la supply-chain in diversi settori produttivi e ridurre l’inflazione di circa 1,3 punti percentuali.

La Cina vara la prima portaerei che può rivaleggiare con quelle Usa

Venerdì 17 giugno la Repubblica popolare cinese ha varato la “Fujian”, la terza e più avanzata delle sue portaerei, interamente made in China. Il varo è avvenuto nei cantieri di Jiangnan, a Shanghai, durante una cerimonia trasmessa dalla televisione di stato. A differenza delle altre due (la “Liaoning” e la “Shandong”, munite di una rampa tradizionale), per il decollo degli aerei il ponte della nuova nave da guerra è dotato di tre catapulte elettromagnetiche presenti, finora, soltanto sulla statunitense “Gerald Ford”.

  • Perché è importante

L’arrivo della “Fujian” (a propulsione convenzionale) conferma le ambizioni della marina militare cinese (che abbiamo analizzato in questo articolo), che punta ad aggiungere alla sua flotta entro il 2035 altre tre portaerei, con ogni probabilità a propulsione nucleare.

Grazie alle catapulte (e dunque alla mancanza di una rampa di lancio) la “Fujian” può ospitare un maggior numero di velivoli ed effettuare decolli e atterraggi più frequenti. Soprattutto a causa della sofisticatezza dei nuovi sistemi ci vorranno almeno 18 mesi di rodaggio prima che la “Fujian” sia pienamente operativa. A quel punto Pechino avrà a disposizione quella che i media locali hanno definito «la più grande e più potente nave da guerra costruita da una nazione asiatica» che, rispetto alle due precedenti portaerei, potrà spingersi molto più lontano dalle coste del paese.

  • Il contesto

La flotta dell’Esercito popolare di liberazione ha già superato per unità attive (355 contro 300) la U.S. Navy, ma in questo computo rientrano anche le navi piccole e più arretrate della marina militare cinese che, nel complesso, ha ancora molto terreno da recuperare: rispetto a quella a stelle e strisce è meno potente e tecnologica, e ha capacità operative limitate. Secondo gli esperti militari cinesi, la “Fujian” potrebbe essere impiegata nel Mar cinese meridionale (dove è concentrata la maggior parte dei contenziosi territoriali di Pechino con i vicini asiatici) e nell’oceano Indiano.

Consigli di lettura della settimana:

Per questa settimana è tutto. Per osservazioni, critiche e suggerimenti potete scrivermi a: exdir@cscc.it

Weilai vi invita a seguire il futuro della Cina su Domani, e vi dà appuntamento a giovedì prossimo.

A presto!

Michelangelo Cocco @classcharacters

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