La guerra tra Israele e Hamas è nella fase “vorrei ma non posso”. Da qui l’atteggiamento ondivago e contraddittorio di scelte sbandierate, corrette, rimangiate, rilanciate, disattese: un caos che impedisce qualunque pronostico sul futuro prossimo e il futuro remoto. Benjamin Netanyahu vorrebbe ma non può (per ora, per quanto tempo?) andare allo scontro finale, invadere Rafah dove si sono rifugiati centinaia di migliaia di palestinesi fuggiti dal nord e dal centro della Striscia di Gaza con le immaginabili conseguenze.

Il suo gabinetto di guerra gli ha dato il via libera all’unanimità, l’esercito ha varato un piano che prevede un altro anno di conflitto, la maggioranza degli israeliani è a favore dell’annientamento totale del nemico fondamentalista islamico, ma allo stesso tempo vorrebbe porre fine al regno del premier più longevo della storia di Israele. Che così ha la necessità di prolungare lo stato emergenziale durante il quale non si cambia il comandante in capo.

Netanyahu, dunque, ha promesso di distruggere Hama,s ma dopo aver mostrato a lungo la faccia più truce è costretto a tenere in conto di alcuni lacci e lacciuoli che frenano il suo delirio di onnipotenza. Invadere Rafah, con la conseguente pronosticabile ulteriore carneficina di civili, favorirebbe la corrente di chi auspica l’emissione di un mandato di cattura della Corte penale internazionale.

È vero che Israele non riconosce quella Corte, ma il paese diventerebbe in qualche modo la sua prigione, impossibilitato come sarebbe a viaggiare all’estero, sarebbe insomma un leader più che dimezzato. Anche gli Stati Uniti di Joe Biden sono contrari all’incrudelirsi del conflitto e gli hanno spedito un monito eloquente sospendendo la consegna di un carico di bombe già concordato nel timore che possano essere usate a Gaza.

Così, al momento, Bibi si accontenta di alcune scaramucce, di un’azione militare limitata. Prende sotto la sua tutela il valico di Rafah, il confine con l’Egitto, assumendosi di fatto, se non di diritto, la responsabilità di qualunque cosa succeda a Gaza, carestie ed epidemie comprese, visto che ora Israele ne controlla tutte le frontiere, sia marittime che terrestri. E nel contempo continua, o finge di voler continuare, le trattative, perché Hamas ha un unico asso nella manica: gli ostaggi. Il riportarli a casa è lo scopo principale della piazza, dei suoi antagonisti interni che lo accusano di avere le mani insanguinate e che non tollererebbero l’abbandono dei rapiti del 7 ottobre scorso rimasti in vita.

Anche Hamas vorrebbe ma non può. Fiaccato nel consenso per i patimenti e i lutti fatti subire alla popolazione, il movimento islamista vorrebbe conservare quell’unico asso nella manica come garanzia di sopravvivenza di quel che resta dei suoi vertici nascosti nei tunnel della cosiddetta “metropolitana di Gaza”, distrutta solo in parte dalle forze di Tsahal. Al suo interno è diviso tra chi è per la trattativa e chi per la resistenza a tutti i costi.

Abbandonato da gran parte del mondo sunnita, al contrario di quanto aveva sperato dopo la carneficina del 7 ottobre, è costretto ad aggrapparsi ai pochi amici che gli sono rimasti, il Qatar, la Turchia di Erdogan, mediatori per suo conto. I quali insistono per una soluzione diplomatica in realtà con margini assai ridotti. Hamas non vuole consegnare gli ostaggi, se non in cambio di un’assicurazione sulla fine completa della ostilità. Proprio quanto non può garantire Netanyahu, per il quale il limite massimo consentito è la tregua temporanea, non la pace che sarebbe sinonimo della perdita del potere.

Tra queste due opposte “impossibilità” c’è tutta l’ipocrisia di negoziati con il freno a mano tirato. E con il retropensiero di farli fallire. Dando la colpa all’altro.

© Riproduzione riservata