Siamo entrati nel vivo della seconda settimana di bombardamenti e lancio di missili. Dopo cinque ore di “silenzio” hanno ripreso a suonare le sirene nelle città israeliane. Non si sono invece fermati i raid aerei dell’aviazione militare contro Gaza. Secondo l’esercito israeliano dal 10 maggio sono stati uccisi 120 affiliati di Hamas e 25 membri della Jihad islamica. Sono circa 115 i chilometri di tunnel sotterranei distrutti a Gaza. Ma non solo. La conta delle vittime civili non si ferma. Sono 60 i bambini morti sotto le bombe secondo Save the Children. Forti danneggiamenti ci sono stati anche nelle scuole delle Nazioni unite all’interno della Striscia.

È un conflitto che si combatte in piena pandemia con la popolazione israeliana che ha raggiunto un’alta percentuale di dosi somministrate mentre a Gaza, nella notte di ieri, è stato gravemente danneggiato dai raid aerei l’unico centro Covid-19 della Striscia situato nel quartiere al-Rimal.

Il Segretario generale delle Nazioni unite, Antonio Guterres, afferma che sono circa 38mila le persone che cercano protezione all’interno delle scuole gestite dall’Unrwa, l’Agenzia per il soccorso e l’occupazione dei rifugiati palestinesi, presenti a Gaza e sono oltre 2500 le persone rimaste senza casa per via dei bombardamenti.

Quarantuno le scuole dell’Unrwa che sono gravemente danneggiate, mentre in tutta la Striscia la fornitura dell’energia elettrica è stata razionalizzata scendendo a 6-8 ore di fruizione durante la giornata.

La tregua è ancora lontana

La situazione rimane ancora in fase di stallo con Netanyahu che vuole approfittarne per assestare colpi importanti contro Hamas e la Jihad islamica. Un’occasione ghiotta per incassare consenso popolare e riprendersi dal declino politico. Il primo ministro israeliano, ha infatti affermato nel pomeriggio di aver inferto un duro colpo all’organizzazione terroristica, tra i peggio degli ultimi anni, minando di fatto la stabilità dell’organizzazione. «I nostri nemici vedono quale prezzo imponiamo per l'aggressione contro di noi, sono sicuro che trarranno la conclusione», dice Netanyahu, aggiungendo che l'operazione andrà avanti «per tutto il tempo necessario a ristabilire la calma per i cittadini di Israele».

Nel frattempo, gli Stati Uniti iniziano a scendere in campo. I cellulari dei funzionari dell’amministrazione Biden hanno squillato per tutto il giorno ieri. Oltre sessanta le telefonate ricevute dalle controparti mediorientali che chiedevano una scesa in campo del presidente americano per fermare l’escalation militare. Ieri pomeriggio ci sono stati i primi colloqui tra il vicesegretario americano per gli Affari israelo-palestinesi, Hady Amr, e il presidente dell’Autorità palestinese Abu Mazen. Ma se da un lato gli Stati Uniti tentano una mediazione, dall’altra parte bloccano per la terza volta in una settimana l’adozione di una dichiarazione congiunta da parte del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni unite. Il testo redatto da Cina, Tunisia e Norvegia e che chiede la «cessazione della violenza e il rispetto del diritto umanitario internazionale, compresa la protezione dei civili, soprattutto dei bambini». Per il prossimo giovedì è attesa una riunione dell’Assemblea generale dell’Onu per discutere della questione.

Ad alimentare le critiche contro l’amministrazione Biden c’è la vendita di una fornitura di armi verso Israele di 735 milioni di dollari, di cui il Congresso Usa ne è venuto a conoscenza il 5 maggio: ovvero cinque giorni prima dell’inizio dell’escalation quando a Gerusalemme dilagavano le proteste e gli scontri tra palestinesi e forze di polizia israeliane. «Abbiamo visto la firma di Biden sulla vendita di armi a Israele», ha detto Erdogan che ha aggiunto: «I territori palestinesi sono inondati di persecuzione, sofferenza e sangue, come molti altri territori che hanno perso la pace con la fine degli ottomani. E voi lo state sostenendo».

Il ministro degli Esteri dell’Unione europeo, Josep Borrell, ha annunciato di aver parlato con il segretario di Stato americano, Antony Blinken, per capire come «ridurre le tensioni» e soluzioni di lungo termine «per rompere le dinamiche del conflitto e ravvivare la prospettiva di un futuro pacifico per tutti».

Per quanto riguarda i paesi arabi in Giordania i parlamentari hanno approvato all'unanimità una mozione che invita il governo a espellere l’ambasciatore di Israele ad Amman per protestare contro i «crimini» israeliani contro i palestinesi. L’Egitto, invece, ha mandato una delegazione dei suoi servizi di sicurezza in Israele per trovare una mediazione. Il presidente egiziano Abd al Fattah al Sisi ha anche promesso un finanziamento di 500 milioni di dollari per la ricostruzione di Gaza, oltre che aiuti medici alla popolazione.

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