Il terzo plenum è circondato da un’aura di misticismo da quando, sotto la guida di Deng Xiaoping, quello dell’XI comitato centrale (18-22 dicembre 1978) inaugurò l’èra di “riforma e apertura”, cambiando il corso della storia della Repubblica popolare cinese.

Terza delle sette sessioni plenarie del comitato centrale previste tra un congresso nazionale e l’altro, come tutti i riti del Partito comunista cinese si celebra secondo tempi e modi codificati, nell’autunno dell’anno seguente l’assise quinquennale del Pcc.

Quando scatta l’ora del plenum, i 376 componenti il comitato centrale si rinchiudono nell’hotel-fortezza “Jinxi”, nel quartiere pechinese di Haidian, da cui riemergono dopo qualche giorno, senza che i media né gli estranei alla leadership allargata ne abbiano seguito le discussioni. Il compito di riassumerne la linea e le decisioni spetta solo al comunicato ufficiale dell’agenzia Xinhua.

Il terzo plenum del XX comitato centrale è però come sparito. Secondo tradizione, avrebbe dovuto celebrarsi l’autunno scorso. Ma nemmeno l’ultima riunione (il 31 gennaio) dell’ufficio politico l’ha messo in calendario. Che fine ha fatto, perché continua a essere rinviato?

Mentre i cinesi iniziano a rientrare dalle ferie con le quali hanno dato il benvenuto all’anno del drago, all’estero cresce l’attesa per il consesso che – si spera  – chiarirà la direzione della seconda economia del pianeta.

«Qualsiasi ritardo nel mantenere le promesse fatte alla comunità imprenditoriale straniera diminuirà la fiducia tra gli investitori tedeschi», ha dichiarato Jens Hildebrandt, direttore esecutivo della camera di commercio tedesca in Cina. «Un terzo plenum che fornisca segnali chiari su come la Cina intende affrontare le sue sfide economiche strutturali e modellare il suo futuro sarebbe molto apprezzato».

Alla fine probabilmente questo mese l’ufficio politico convocherà il terzo plenum, dopo le “due sessioni” della Conferenza politica consultiva del popolo cinese e dell’Assemblea nazionale del popolo che si apriranno a Pechino il 4 marzo.

“Unità nazionale”

Come che sia, chi si augura ulteriori aperture di mercato e misure energiche per stimolare la crescita potrebbe rimanere a bocca asciutta. Alla riapertura dopo la festa di primavera, la banca centrale dovrebbe mantenere invariato (al 2,5 per cento) il tasso d’interesse sui prestiti a un anno, procrastinando ancora una volta un taglio che potrebbe aiutare la domanda, ma che rischierebbe di indebolire ulteriormente lo yuan, incentivando la fuga di capitali.

Dopo l’aumento al 3,8 per cento del rapporto deficit Pil nel corso dell’anno scorso, anche nel 2024 politica fiscale sarà accomodante. Ma a prevalere sarà la prudenza, piuttosto che le mosse decise auspicate dagli investitori.

La “fase” – nella lettura della leadership di Pechino – è infatti caratterizzata dal contenimento hi-tech varato dagli Usa contro la Cina e da crescenti tensioni internazionali.

Un contesto esterno che, così come la necessità di governare la trasformazione della manifattura nazionale, sollecita la bramosia di controllo del partito-stato. Non a caso l’ufficio politico ha sottolineato l’obiettivo di rafforzare la disciplina e la coesione del partito, assieme a quello dello sviluppo di “alta qualità”.

Il fatto è che la leadership di Pechino (e gli stessi cinesi) è ormai rassegnata a una crescita più lenta del passato, per questo la propaganda continua a mostrare Xi in versione uomo del popolo che (com’è lontana la grandeur del XIX congresso!) visita famiglie umili nelle aree rurali del paese, mentre dai social media rivolge l’appello, molto confuciano, a «forgiare un senso di comunità della nazione cinese».

Errori e purghe

«La politica ha preso il comando», lamenta dall’estero chi crede al miraggio di una classe media di 800 milioni di persone. In realtà non l’ha ceduto nemmeno per un attimo da quando Xi Jinping è stato eletto segretario generale a fine 2012.

Soltanto che nel biennio orribile 2021-2022 sono stati commessi errori (la politica anti-Covid, la campagna di rettifica contro i colossi di internet e il settore immobiliare, eccetera) ai quali ci si attendeva che lo stato avrebbe riparato cedendo più spazio al mercato. Ma, forse, era una pia illusione.

I segnali che indicano un massiccio ridimensionamento delle aspettative sono tanti, anche se non implicano il collasso preannunciato dalla rediviva “Collapsing China school”. Il crollo del mercato immobiliare e azionario dei quali non si fida più nessuno, l’aumento dei risparmi bancari (pari a circa 2.500 miliardi di dollari), il boom della domanda di lingotti d’oro, 280 tonnellate nel 2023 (+28 per cento).

E, indicatore massimamente sottovalutato da un occidente per cui “cinese” è sinonimo di “lavoratore”, il desiderio post-Covid, diffuso tra i giovani e i ceti più istruiti, di lavorare meno, anche a scapito del reddito.

Nonostante si ritiene che Xi Jinping abbia consolidato il suo potere con il XX congresso, il terzo plenum tarda ad arrivare, perché costruire il consenso nel partito attorno a politiche che rappresentano un cambiamento di paradigma rispetto all’iper crescita del passato richiede tempo. Così come va fatta digerire con calma la rimozione, nelle ultime settimane, di un pezzo dei vertici della Forza missilistica, fiore all’occhiello dell’Esercito popolare di liberazione e, in precedenza, dei ministri della difesa e degli esteri, Li Shangfu e Qin Gang.

Arriva Scholz

Intanto Olaf Scholz – l’unico leader del G7 che nel novembre 2022 accorse a Pechino per congratularsi con Xi subito dopo la riconferma da parte del XX congresso – tornerà a corte, il 15 e 16 aprile, anche stavolta assieme a una nutrita delegazione di industriali teutonici.

La Cina è il primo partner commerciale della Germania (253,1 miliardi di euro d’interscambio nel 2023) e, tra quelle europee, le aziende tedesche sono di gran lunga le più esposte nella Repubblica popolare cinese.

Anche in vista del possibile ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca, Pechino utilizzerà la visita del cancelliere socialdemocratico per sottolineare il ruolo “costruttivo” della Cina, tanto per la ripresa globale quanto nelle relazioni internazionali.

I cinesi sono convinti che le difficoltà dell’economia tedesca (la Bdi si attende per quest’anno una crescita dello 0,3 per cento, dopo il -0,3 per cento registrato nel 2023) renderanno per Berlino ancora più irrinunciabile la sua relazione “simbiotica” con Pechino nell’industria dell’automotive, così come la collaborazione nei settori digitali e green.

Il mese scorso, il premier Li Qiang ha dichiarato al World Economic Forum di Davos che la Cina è impegnato a creare “condizioni favorevoli” per le aziende straniere, tra cui la totale revoca delle restrizioni sugli investimenti esteri nel settore manifatturiero. «Abbiamo sentito parole positive, ma allo stesso tempo siamo uomini d’affari e analizziamo i problemi sul campo.

L’accesso al mercato, in realtà, non migliora», ha sostenuto Joerg Wuttke, il rappresentante della Basf a Pechino dal 1997 che si appresta a lasciare la Cina dopo aver presieduto per tre mandati la Camera di commercio europea in Cina.

Nel terzo trimestre del 2023, la Cina ha registrato per la prima volta dal 1998 un deficit (11,8 miliardi di dollari) negli investimenti esteri. Wuttke non ha dubbi: «C’è un grande eccesso di capacità produttiva in Cina. E quindi dove investiresti? Si potrebbe investire soltanto di più in settori già affetti da eccesso di capacità», ha osservato Wuttke in un’intervista concessa a South China Morning Post. «E così le aziende sfornano prodotti, ma non riescono a venderli. Ed è per questo che molti capitali stanno lasciando la Cina», ha aggiunto.

In effetti, nel corso dell’annuale conferenza centrale sul lavoro economico, i leader del partito comunista hanno riconosciuto che “la sovraccapacità in alcuni settori” è una delle principali sfide economiche da affrontare nel 2024. Il terzo plenum, forse, ci dirà qualcosa in più su come la politica intende affrontarla.

© Riproduzione riservata