Nel fragore dei bombardamenti, dei missili, delle dichiarazioni sempre più bellicose di queste ore, quella della Chiesa è una delle poche voci a levarsi con forza per mettere in guardia governi e nazioni dai rischi terribili che si delineano seguendo la strada dell’escalation militare e di una rinnovata corsa agi armamenti. Il papa per due volte – lo scorso 14 giugno, in occasione di un’udienza giubilare nella basilica vaticana, e di nuovo mercoledì mattina nel corso dell’udienza generale in piazza San Pietro – è tornato sul tema con accenti drammatici: «Il cuore della Chiesa è straziato – ha detto – per le grida che si levano dai luoghi di guerra, in particolare dall’Ucraina, dall’Iran, da Israele, da Gaza. Non dobbiamo abituarci alla guerra!».

Quindi ha nuovamente chiamato i responsabili dei governi a un sussulto di responsabilità, a scegliere «il rispetto del diritto internazionale», perché ciò che si rischia è «una barbarie di gran lunga superiore a quella dei tempi passati». Da parte sua il segretario di Stato vaticano, Pietro Parolin, ha ribadito la posizione della Santa Sede in modo chiaro: «Anche il disarmo nucleare deve essere condotto in maniera pacifica attraverso il dialogo e attraverso i negoziati. Ed è quello che noi chiediamo in questo momento».

Dalla Terra Santa poi, il patriarca di Gerusalemme, cardinale Pierbattista Pizzaballa, nei giorni scorsi, parlando con Rainews 24 ha descritto una situazione che a Gaza «resta disastrosa, drammatica e disumana». «Il sistema sanitario è saltato completamente, mancano medicinali, igiene, acqua, manca il cibo da mesi e la popolazione è affamata». Quindi ha aggiunto: «Sono esterrefatto, non riesco a capire il senso di tutto questo, che va oltre ogni limite comprensibile. Condannare la politica del governo israeliano non significa condannare l’ebraismo, bisogna distinguere, ma va detto con molta chiarezza che ciò che sta facendo la politica israeliana a Gaza è inconcepibile e inaccettabile».

La Santa Sede, dunque, a cominciare dal papa e poi attraverso alcuni dei suoi più alti rappresentanti, ha condannato nettamente, e senza giri di parole, le azioni militari scatenate in primo luogo dal governo israeliano a Gaza come in Iran, tuttavia anche lo scambio di minacce fra Trump e l’ayatollah Ali Khameni, guida suprema dell’Iran, che rischiano di far tracimare ulteriormente il conflitto rendendolo sempre più globale, è visto con grave allarme nei sacri palazzi. L’ambasciatore di Israele presso la Santa Sede, Yaron Sideman, intervistato dalla testata online americana, Crux, ha detto da parte sua: «Il dialogo non ha prodotto risultati e quindi dobbiamo agire prima che sia troppo tardi per impedire all’Iran di acquisire capacità nucleari».

L’arcivescovo di Teheran, Dominique Joseph Mathieu, alla guida della piccola comunità cattolica presente nel paese, rispondendo all’Osservatore romano, ha detto fra le altre cose che quella in corso è una guerra senza eserciti contrapposti poiché «non esiste un confine comune dove essi possono entrare in contatto quindi tutto si svolge nello spazio aereo dove si combattono missili e droni, in sostanza un conflitto asimmetrico dove lo spazio areo di altre nazioni viene violato sistematicamente». Posizioni lontane e quasi inconciliabili dunque, appaiono oggi quelle espresse da Vaticano e Israele nonostante papa Prevost abbia posto, fra gli obiettivi del suo pontificato la costruzione dell’unità fra i popoli e all’interno stesso della Chiesa, attraverso il dialogo e la capacità d’ascolto. Contrapposizioni che forse potranno un giorno essere superate, ma certo allo stato attuale delle cose sembrano ostacoli insormontabili. È possibile dire, anzi, che la ripresa di un dialogo positivo anche sotto il profilo teologico non potrà prescindere da un chiarimento sulle reciproche posizioni in relazione al lungo conflitto in corso e sulle conseguenze che esso avrà sull’intera regione mediorientale.

Un discorso parzialmente simile è possibile a proposito dei rapporti con la Casa Bianca, nei confronti della quale la Santa Sede nutre un crescente scetticismo considerato l’andamento ondivago rispetto alle crisi internazionali di Donald Trump, che sembra sempre di più un interlocutore poco affidabile. A ciò si aggiunga la decisione del primo papa di origine statunitense di dare seguito all’accordo fra Santa Sede e Cina sulla nomina condivisa dei vescovi.

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