«Amo molto i militari, ma il messaggio che voglio dare ai miei compagni soldati è: Se dovete scegliere tra il paese e il Tatmadaw, per favore scegliete il paese». A parlare al New York Times è un capitano della 77esima divisione di fanteria leggera birmana, nota in tutto il paese per la sua violenza.

È uno dei pochi disertori che ha deciso di lasciare il suo incarico perché si rifiuta di sparare e uccidere i cittadini del suo paese. In Myanmar, nell’ultimo week end le forze militari hanno ucciso oltre 90 persone, tra questi anche una bambina di cinque anni e uno di tredici. Stavano manifestando contro il colpo di stato del 1° febbraio perpetrato dalle forze armate che hanno rovesciato il governo democraticamente eletto. I militari hanno incarcerato i capi della Lega nazionale democratica, partito di governo di cui fa parte la leader birmana Aung San Suu Kyi. Sono accusati di aver commesso brogli elettorali nelle ultime elezioni di novembre. Suu Kyi è attualmente reclusa in una località ignota, ma dovrà affrontare diversi capi d’accusa che vanno dalla corruzione alla violazione della legge sull’import-export del paese.

Dall’inizio del golpe, il Tatmadaw ha ucciso circa 420 manifestanti. Decine i torturati e migliaia gli arrestati.

(AP Photo)

Lo stato nello stato

La fonte racconta al New York Times che i membri del Tatmadaw ricoprono un ruolo privilegiato all’interno dello stato: «I soldati vivono, lavorano e socializzano separatamente dal resto della società, imbevuti di un’ideologia che li pone molto al di sopra della popolazione civile» si legge nell’articolo. Gli ufficiali sono costantemente monitorati dai loro superiori, nelle caserme e su Facebook e gli ordini di uccidere i civili devono essere eseguiti senza obiezioni.

«La maggior parte dei soldati ha subito il lavaggio del cervello» racconta un capitano in forma anonima perché ancora in servizio. I membri del Tatmadaw vivono in una società parallela, hanno le loro scuole, banche, ospedali, aziende, servizi di assicurazioni.

I soldati «vedono i manifestanti come criminali perché se qualcuno disobbedisce o protesta contro i militari, è un criminale» ha detto al Nyt il capitano Tun Myat Aung. «La maggior parte dei soldati non ha mai assaggiato la democrazia per tutta la vita. Vivono ancora nel buio». La maggioranza degli ufficiali e le loro famiglie risiedono in complessi militari, ogni loro mossa è monitorata. Dopo il colpo di stato, la maggior parte di loro non ha potuto lasciare quelle strutture per più di quindici minuti senza permesso. «Chiamerei questa situazione schiavitù moderna» racconta un ufficiale che ha disertato dopo il colpo di stato. «Dobbiamo seguire ogni ordine dei nostri superiori. Non possiamo mettere in dubbio se era giusto o ingiusto».

«Sono felice di essere un servitore del popolo, ma essere nell’esercito significa essere un servitore dei capi del Tatmadaw» ha detto invece un medico militare a Yangon. «Voglio andarmene, ma non posso. Se lo faccio, mi manderanno in prigione. Se scappo, tortureranno i miei familiari».

Il golpe

Nonostante il precedente governo democratico, i ministeri più importanti sono rimasti nelle mani dei militari. Nelle ultime settimane i militari hanno anche bloccato l’uso di Internet e Facebook in alcune aree del paese. Secondo i soldati che hanno parlato con il Times, la sospensione dell’accesso ai dati mobili aveva lo scopo sia di isolare le truppe che cominciavano a mettere in discussione i loro ordini, sia di tagliare fuori la popolazione in generale. A monte di questa violenza c’è la paura storica di subire un invasione da parte dell’Occidente e di vedere attaccata la religione buddista da parte dei musulmani, questo spiega quello che molti definiscono il «genocidio» dei Rohingya.

Il 1° febbraio il capitano Tun Myat Aung ha iniziato la sua giornata di lavoro come tutte le altre, non era a conoscenza del colpo di stato. Appena saputo «mi sono sentito come se avessi perso la speranza per il Myanmar», ha detto al Nyt. Quando ha visto il suo superiore con una scatola di proiettili veri in mano ha capito «che la maggior parte dei soldati vede il popolo come il nemico».

In questi giorni sanguinari i leader internazionali hanno più volte chiesto la fine delle violenze e imposto sanzioni nei confronti degli ufficiali birmani, ma i militari non intendono fare un passo indietro, così come i manifestanti che continuano a chiedere il ritorno alla democrazia.

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