Alcuni anni fa ho fatto un’intervista in diretta a Tagesthemen, uno dei principali programmi d’informazione in Germania. Quando mi hanno chiesto perché la polarizzazione politica fosse cresciuta negli ultimi anni, ho detto che una delle ragioni principali era il cambiamento demografico. Siamo, ho detto, nel mezzo di un «esperimento storico unico», quello di costruire democrazie egalitarie e profondamente diverse. 

Il giorno successivo la mia casella email ha iniziato a riempirsi di messaggi arrabbiati. «Basta dirci come dobbiamo vivere!», diceva uno di questi. «Come osi fare esperimenti su di noi?», chiedeva un altro. «Grazie per aver ammesso il tuo vile complotto», diceva un terzo. Sono rimasto spiazzato dall’animosità di quei messaggi. Ma ero ancora più sconcertato dal loro contenuto. Quale complotto avevo ammesso? Su chi stavo facendo qualche esperimento?

Una ricerca online mi ha rapidamente fornito la risposta. Pochi minuti dopo la mia intervista, un sito dell’estrema destra tedesca aveva pubblicato un articolo che suggeriva che io e Angela Merkel stavamo facendo deliberatamente qualche esperimento sul popolo tedesco. «Chi ha acconsentito a questo esperimento?», gli autori volevano sapere. A quel punto la rabbia alla mia presunta ammissione si è diffusa a una velocità sorprendente. Conduttori radiofonici di estrema destra, YouTuber e anche politici eletti citavano l’intervista come prova del fatto che forze oscure stessero mettendo in atto una “grande sostituzione” concepita per annichilire la popolazione nativa europea.

Per ribadire l’ovvio, io e Merkel non siamo in combutta per fare qualche grandioso esperimento sul popolo tedesco. Nessuno lo sta facendo. Il rapido cambiamento nella composizione etnica e religiosa di paesi dalla Germania alla Svezia, dall’Australia agli Stati Uniti, non nasce dalle decisioni di qualche setta segreta; è la conseguenza involontaria di una serie di scelte che i politici hanno fatto per una varietà di ragioni economiche, politiche e umanitarie. Eppure, non mi pento di aver usato il termine “esperimento”: penso ancora che sia il migliore per descrivere la situazione in cui si trova la maggior parte delle democrazie sviluppate nel mondo.

Chiarire l’esperimento

Un esperimento viene eseguito da scienziati che consapevolmente fissano dei parametri prima di cominciare. Secondo l’Oxford english dictionary, un esperimento è «una procedura scientifica compiuta per fare una scoperta, verificare un’ipotesi o dimostrare un fatto noto». Questo è il modo in cui i miei critici hanno interpretato il suggerimento per cui molti paesi si sono imbarcati in un esperimento storico senza precedenti.

Ma secondo un altro significato, un esperimento può consistere nel cercare di ottenere un risultato importante in circostanze inusuali o impreviste. Si tratta, secondo la formula dello stesso dizionario, di «una modalità d’azione intrapresa senza essere sicuri del risultato». Questo è, ovviamente, quello che io avevo in mente.

Nel Diciottesimo secolo i padri fondatori degli Stati Uniti hanno dato vita a un grande esperimento della democrazia moderna, fondando una repubblica autonoma nel momento in cui tentativi simili in altri paesi erano miseramente falliti. Anche se non potevano essere sicuri del risultato, riconoscevano che un “lungo treno di abusi” li stesse lasciando senza altra scelta, se avessero voluto restare coerenti con i propri ideali.

Oggi ci stiamo imbarcando in un nuovo tentativo simile. In un momento che ha pochi precedenti, ci siamo imbattuti nel grande esperimento di costruire democrazie molto eterogenee capaci di durare, di trattare i loro membri in modo equo e possibilmente anche di avere successo. Questo grande esperimento è il tentativo più importante del nostro tempo. È stato messo in moto senza che nessuno lo avesse consapevolmente concepito. Non c’è un consenso riguardo alle regole e alle istituzioni che possono far sì che abbia successo. E stiamo anche perdendo di vista l’obiettivo: una visione del futuro che i membri della maggioranza e della minoranza possano abbracciare sinceramente.

Pessimismo e xenofobia

Negli ultimi anni è diventato di moda essere profondamente cinici sulle possibilità di successo di questo esperimento. In molte democrazie sviluppate, il pessimismo sul grande esperimento è il marchio di una parte della destra. I razzisti e i demagoghi di tutto il mondo concordano su un assunto fondamentale: il successo delle democrazie, dall’Italia agli Stati Uniti, è fondato sulla composizione culturale e sull’assetto etnico. L’immigrazione e i cambiamenti demografici rappresentano una minaccia esistenziale per entrambi. Sono destinate a impoverire paesi e culture, e ad aizzare il caos e la guerra civile.

Negli ultimi decenni queste voci si sono spostate dalle estremità al centro della vita politica e pubblica. Ci sono differenze rilevanti fra leader di estrema destra come Viktor Orbán, Jair Bolsonaro, Narendra Modi e Recep Tayyip Erdogan. Vengono da diverse tradizioni religiose, hanno affiliazioni ideologiche con diverse tribù ideologiche e le loro ire sono dirette a nemici differenti. Ma la cosa che condividono è il senso della maggioranza etnica. Tutti questi indicano le minoranze nei loro paesi come minacce fondamentali al loro benessere.

Ma ciò che è più sorprendente di questo momento storico non è il fatto che alcuni settori della destra si oppongano alla diversità. È il fatto che alcune parti della sinistra siano diventate, a modo loro, sempre più pessimiste riguardo a questo grande esperimento. Molte voci influenti nella sinistra ora sostengono che l’ingiustizia razziale non è un tradimento del progetto americano, ma una sua caratteristica essenziale. Il razzismo non è un peccato terribile commesso da un popolo particolare, ma un’onnipresente forza sociale di cui tutti i bianchi sono inesorabilmente colpevoli. E gli ultimi cinquant’anni non hanno tracciato la storia di un progresso scomposto verso maggiore giustizia e uguaglianza. Hanno offerto, al massimo, alcune pause alla supremazia bianca che costituisce il dna del paese.

Non volendo vedere i progressi più significativi fatti nell’ultimo secolo, questi autori ovviamente coltivano ben poche speranze per il prossimo. Per loro, i “bianchi” e le “persone di colore” si affronteranno per sempre come irriducibili nemici. Se paesi come gli Stati Uniti faranno progressi verso una maggiore giustizia razziale, sarà soltanto perché gli oppressi sconfiggeranno i loro storici oppressori nella battaglia finale per il potere. Molte delle ingiustizie contro cui si battono questi autori sono reali. E allo stesso tempo, questo fatalismo assomiglia più alla xenofobia della destra etno-nazionalista che a una visione per costruire democrazie multiculturali di successo. Se vogliamo che questo grande esperimento funzioni, dobbiamo sviluppare una visione più ottimistica.

Nel corso della storia sono esistite molte società variegate dal punto di vista etnico e religioso, ma molte di queste avevano seri problemi. Alcune si sono dimostrate incapaci di mantenere la pace e non hanno prodotto governi centrali in grado di fornire beni pubblici fondamentali. Altre erano così frammentate da finire per spaccarsi in federazioni di tribù in conflitto. Altre ancora hanno lasciato che un gruppo etnico o religioso soggiogasse gli altri.

Al contrario di altre democrazie, gli Stati Uniti hanno avuto dal loro inizio una grande diversità. Ma come molte altre società nella storia, hanno a lungo mantenuto una gerarchia etnica e religiosa profondamente ingiusta. La storia dell’oppressione continua a proiettare una lunga ombra sull’America. L’eredità della schiavitù determina ancora la realtà contemporanea in molti modi. Il successo di questo esperimento dipende ancora in larga parte dalla capacità di superare gli effetti di quelle ingiustizie.
Ma sarebbe un errore concludere che questi problemi siano in qualche modo esclusivi degli Stati Uniti o che non siamo riusciti a compiere veri progressi verso una società più equa. In effetti, il pessimismo che ora è così di moda sia a sinistra che a destra non dipinge una visione realistica dello stato attuale delle democrazie.

Segnali ottimistici

Nella maggior parte delle democrazie orientate alla diversità, sia i discendenti degli immigrati che le minoranze stanno rapidamente scalando i ranghi sociali. Si laureano a un ritmo più rapido degli altri. Il loro reddito è in aumento. Stanno raggiungendo posizioni di potere e prestigio, dagli affari alla cultura e alla politica, che ai loro genitori o nonni sarebbero sembrate a malapena immaginabili.

L’America era un paese di segregazione e odi, in cui la forza della legge rendeva difficile per gli americani bianchi e neri essere amici, e illegale sposarsi fra loro. Oggi, leggi severe puniscono le imprese che praticano forme di discriminazione e prevedono il carcere per le persone che commettono crimini di odio. Il numero di amicizie, relazioni e famiglie interrazziali cresce di ora in ora. E sebbene il divario razziale nel reddito e nell’istruzione, nell’aspettativa di vita e nella carcerazione rimanga significativo, si sta riducendo costantemente.

L’esperienza degli afroamericani rappresenta la sfida più seria per un resoconto ottimistico del futuro delle diverse democrazie. In media, guadagnano il 75 per cento rispetto ai bianchi. La disparità di ricchezza tra americani bianchi e neri è ancora più sorprendente: il reddito netto di una tipica famiglia bianca è di 171mila dollari, quasi dieci volte quello di una famiglia media nera.

Ma nel complesso la condizione dell’America nera è notevolmente migliorata negli ultimi sessant’anni. In effetti, la grande maggioranza degli afroamericani è ormai entrata nella classe media. Nel 2021, l’americano medio nero vive nella periferia di un grande centro metropolitano o di una piccola città, non più nei centri urbani o in campagna. Si è diplomato e, se ha meno di 40 anni, si è iscritto a un college o a un’università. Ha un lavoro da colletto bianco come infermiera o insegnante, non è un operaio edile o un impiegato di una catena di fast food. Ha l’assicurazione sanitaria tramite il posto di lavoro, non la acquista sul mercato e non sceglie di non assicurarsi.

Di conseguenza, le opinioni dell’americano nero medio sono molto più ottimistiche di quanto si possa pensare ascoltando i racconti dell’estrema sinistra o dell’estrema destra. È orgoglioso del suo paese e dice di amare l’America. E in realtà è più propenso dei suoi concittadini bianchi a “credere nel sogno americano” o a dire che i giorni migliori del paese devono ancora venire.

Sottolineare il progresso degli ultimi cinquant’anni non significa negare l’urgenza di superare le disuguaglianze e le ingiustizie che ancora caratterizzano tutte le democrazie, compresi gli Stati Uniti. Serve per fornire un orientamento sulle possibilità di costruire democrazie che effettivamente funzionano.

Se gli ultimi settant’anni fossero stati completamente privi di progresso, la conseguenza logica sarebbe quella di eliminare i princìpi fondamentali che strutturano democrazie come quella degli Stati Uniti. Ma dal momento che il presente è assai migliore del passato, è opportuno trarre una conclusione più ottimistica, cosa che hanno storicamente fatto illustri leader afroamericani, da Frederick Douglass a Barack Obama.

Precetti liberali

Per gran parte della storia americana, anche i critici ardenti delle ingiustizie del paese hanno sostenuto che i suoi ideali fondativi potevano illuminare la via verso un futuro migliore. Nel suo famoso discorso sul significato della Dichiarazione di indipendenza, Douglass ha sottolineato l’amara ironia di celebrare la libertà mentre la schiavitù è rimasta la legge del paese: «Questo quattro luglio è tuo, non mio», ha insistito. «Puoi rallegrarti, devo piangere». Eppure Douglass non ha respinto i princìpi proposti dai padri fondatori: «Nonostante il quadro oscuro che ho presentato oggi della nazione», ha concluso, «non dispero di questo paese. Lascio dunque da dove ho cominciato, con speranza, traendo incoraggiamento dalla Dichiarazione di indipendenza, dai grandi princìpi che contiene e dal genio delle istituzioni americane».

Douglass aveva ragione. I princìpi di fondo che sostengono le democrazie liberali, come lo stato di diritto e l’attenzione ai diritti e ai doveri degli individui, possono costituire la base di democrazie eterogenee; si tratta di garantire che tutti i cittadini possano godere di tali diritti indipendentemente dalla loro religione o dal colore della pelle. E a tal fine, dobbiamo adottare valori condivisi che possono ridurre la polarizzazione politica, rinnovare il senso di uno scopo comune e impedire alla nostra società di disgregarsi. Tre valori particolarmente importanti.

Alcuni critici rifiutano i precetti di base del liberalismo perché affermano che il suo focus sugli individui, piuttosto che sui gruppi, non presti sufficiente attenzione al ruolo centrale che i legami religiosi ed etnici svolgono nella vita delle persone. Ma questo genera un equivoco sulla ragione per cui i diritti individuali piuttosto che di gruppo offrano la base migliore per le democrazie multiculturali. È esattamente perché tante persone danno molta importanza ai loro valori religiosi e ai legami comunitari che i cittadini hanno bisogno di avere la libertà di prendere una decisione su cosa dire o come praticare il culto.

La coraggiosa battaglia dell’Ucraina contro l’occupazione e la tirannia ci ricorda che il patriottismo può, nelle giuste circostanze, essere una forza positiva nel mondo. Questo tipo di patriottismo deve rifiutare una concezione etnica che renda l’appartenenza dipendente dalla discendenza, escludendo le minoranze dalla piena partecipazione. Al contrario, dovrebbe enfatizzare i valori civici, come l’amore per la libertà, che possono unire cittadini di diverse provenienze. Dovrebbe anche abbracciare una forte componente culturale. Quando gli americani affermano di amare il proprio paese, lo si potrebbe intendere come dimostrazione di affetto per la cultura vibrante e dinamica che definisce il proprio paese oggi o alla glorificazione di un passato lontano.

Prospettive future

Infine, molti esperti, sondaggisti e politici ora presumono che la demografia sia un destino. Il conflitto fondamentale nella vita americana, affermano, è e sarà sempre tra i bianchi e le cosiddette “persone di colore”. Ma questo è sbagliato, empiricamente e normativamente.

Le elezioni del 2020 – in cui Joe Biden ha fatto breccia tra gli elettori bianchi e Donald Trump ha notevolmente ampliato la sua quota di voti tra latini, asiatici-americani e afroamericani – mostrano che è impossibile prevedere come i diversi gruppi etnici voteranno fra venti o quarant’anni. Lo stesso vale per altri aspetti della vita americana.

Mentre alcuni conflitti importanti corrono lungo linee razziali, altri no. La realtà della vita americana è, per fortuna, molto più complessa di quanto suggerirebbe la semplicistica divisione degli americani in bianchi e persone di colore.

A Hispanic man holds up a sign for Republican presidential candidate Donald Trump before the start of a rally at the Anaheim Convention Center, Wednesday, May 25, 2016, in Anaheim, Calif. (AP Photo/Jae C. Hong)

Ci sono valide ragioni per temere che il grande esperimento possa andare storto. È del tutto possibile che le democrazie, anche tra venticinque o cinquant’anni, conserveranno molte delle ingiustizie che le caratterizzano oggi. Ma è troppo presto per rassegnarci a una visione del futuro in cui la maggior parte delle persone guarderà ancora con sospetto chiunque abbia una religione o un colore della pelle diversi; in cui i membri di diversi gruppi di identità hanno pochi contatti tra loro nella loro vita quotidiana; in cui tutti scegliamo di sottolineare le differenze che ci dividono piuttosto che i punti in comune che potrebbero unirci; e in cui le faglie fondamentali della battaglia politica e culturale cadono ancora tra cristiani e musulmani, nativi e immigrati, o bianchi e neri.

Definire ingenue e utopiche visioni più ambiziose su ciò che il futuro potrebbe riservarci può farci sentire intelligenti o sofisticati. Ma in realtà è più probabile che il grande esperimento avrà successo se i suoi sostenitori più devoti cercheranno di creare società in cui la maggior parte delle persone vorrebbe effettivamente vivere.

Per costruire quel tipo di società, dovremmo insistere sul fatto che i limiti di oggi non devono necessariamente diventare le realtà di domani. È possibile costruire legami sempre più stretti di cooperazione e persino di amicizia. Le culture nazionali possono arrivare ad accogliere i nuovi arrivati ​​come membri a pieno titolo ed eguali. Persone provenienti da diversi gruppi etnici e culturali possono, senza dover rinunciare alla propria identità, intraprendere una vita condivisa. E le identità ascrittive come la razza possono arrivare a svolgere un ruolo minore rispetto a quello che hanno ora, non perché molte persone siano cieche alla loro importanza attuale, ma perché avremo smantellato molte delle ingiustizie che ora le rendono così importanti.

Ci vorrebbe un cieco ottimismo per non vedere che le nostre democrazie hanno un disperato bisogno di miglioramenti. Ma ci vorrebbe un cinismo ancora più accecante per credere che siamo diventati incapaci di costruire sul progresso degli ultimi cinquant’anni, o che le nostre società siano condannate, qualunque cosa facciamo, a essere per sempre definite dal razzismo e dall’esclusione. La strada per il successo del grande esperimento è in salita. Ma i costi del fallimento sono troppo alti per accontentarsi di una destinazione minore o per rinunciare a metà del viaggio.


Traduzione a cura di Monica Fava.

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