Sheket iorim” è una nota espressione del lessico politico israeliano: letteralmente significa: “Silenzio, si sta sparando”, e vuol dire che nei momenti di difficoltà le divisioni interne vanno messe da parte nel nome dell’unità nazionale. Per unità nazionale implicitamente si intende solidarietà all’interno della componente ebraica della popolazione israeliana.

In queste ore di guerra con Gaza e di scontri nelle città miste fra arabi ed ebrei – 8 gli israeliani uccisi e 119 i palestinesi, quasi tutti nella Striscia – lo “sheket iorim” come precetto politico ha trovato una delle sue più classiche manifestazioni. Naftali Bennett, uno dei leader chiave dell’opposizione, ha fatto saltare in extremis la trattativa per il cosiddetto “governo del cambiamento”, che dopo 13 anni forse avrebbe messo fine, almeno temporaneamente, all’era Netanyahu.

Il motivo? La coalizione avrebbe dovuto contare sull’appoggio, perlomeno esterno, di un partito della minoranza araba. Un fatto che sarebbe stato senza precedenti a parte una breve fase, durante il processo di pace di Oslo, in cui un accordo di questo tipo aveva tenuto in piedi il governo di Yitzhak Rabin, l’ex premier prima soldato pluridecorato e poi leader pacifista ucciso da un estremista israeliano nel 1995.

Per Bennett, secondo quanto trapelato da un incontro a porte chiuse con membri del suo partito Yamina (destra) e del Likud di Netanyahu, non sussistono più le condizioni per un accordo con Mansour Abbas, leader di Ra’am. «Quando è in corso un’ondata di pogrom arabi in tutto il paese, e quando anche l’esercito israeliano deve essere coinvolto, allora ci troviamo di fronte ad una realtà mutata», avrebbe detto Bennett secondo i media locali, per spiegare la giravolta politica.

Il miracolato Bibi

Yair Lapid, che con 17 seggi guida il più grande partito di opposizione, avrebbe dovuto subentrare in secondo tempo come primo ministro, stando all’accordo di rotazione in via di definizione con Bennett. «Non si realizza il cambiamento quando fa comodo», ha dichiarato in un comunicato polemico diramato su Whatsapp dal suo portavoce. «Proprio ora, che ci troviamo faccia a faccia con caos e terrore, dobbiamo formare un governo. La situazione non cambierà se non siamo noi a cambiarla», ha detto.

Il miracolato della situazione, ancora una volta, è Benjamin Netanyahu. Incapace di formare un governo dopo quattro tornate elettorali consecutive in meno di due anni, proprio a lui spetta la poltrona di primo ministro fin quando non viene superato lo stallo politico. Bibi sembrava già sul punto di capitolare lo scorso anno, quado il Blu e Bianco di Benny Gantz (attualmente ministro della Difesa) si era imposto come primo partito, e aveva escluso accordi con Netanyahu.

Allora a salvarlo fu il coronavirus: Netanyahu parlò in diretta TV di “pandemia” ancor prima che venisse dichiarata tale dall’Organizzazione mondiale della sanità. Si mise a spiegare agli israeliani in diretta come dovessero starnutire e dichiarò l’emergenza nazionale. La pandemia indusse Gantz a tradire il proprio elettorato unendosi a un governo di larghe intese con Netanyahu. Dal canto suo, Bibi non si fece poi scrupoli a lasciar cadere l’esecutivo nel pieno della crisi sanitaria e convocare nuove elezioni, di fatto cancellando l’accordo secondo cui avrebbe dovuto cedere a metà strada il timone a Gantz.

Questa volta, quand’era sul punto di cadere, è sopraggiunta la crisi coi palestinesi. Le prime avvisaglie di una sollevazione si sono manifestate a Gerusalemme, e uno dei fattori è stato il comportamento delle autorità di sicurezza israeliane. La decisione della polizia di imporre transenne alla porta di Damasco, uno dei luoghi simboli di Gerusalemme est, e poi di reagire duramente alle proteste contro le confische di Sheikh Jarrah (o Shimon Hatsadick, per chi preferisce il lessico israeliano) e penetrare fin dentro le moschee della spianata, avevano tutti i presupposti di fomentare una reazione della piazza araba. Non stupisce allora che qualcuno, fra gli analisti israeliani, alluda al fatto che possa esserci un sostrato di malizia politica nello scarso giudizio dimostrato da Netanyahu, ma siamo nel campo della congettura.

Quello che è certo è che a Balfour Street, la residenza del primo ministro israeliano a Gerusalemme, non si aspettavano un’escalation di questa portata. I miliziani della striscia continuano in queste ore a dare prova di capacità militari ben al di sopra di quanto supponessero gli apparati di sicurezza israeliani. Raggiungono Tel Aviv e la zona centrale con svariate scariche di razzi, e addirittura Eilat a più di 200 chilometri di distanza dalla striscia per impedire a Israele di dirottare il traffico aereo sul nuovo aeroporto di Ramon, nell’estremo sud del paese.

Le responsabilità politiche

Nella giornata di venerdì – che ha registrato attività ostili a Israele anche dal Libano, nella West Bank, e persino proteste dalla Giordania – sono anche continuati gli scontri fratricidi fra bande organizzati di arabi ed ebrei violenti nelle città israeliane con una presenza della minoranza araba (che rappresenta il 22 per cento della popolazione). E se da una parte il vortice di violenze ha mandato all’aria il governo del cambiamento, mette anche in cattiva luce l’operato di anni di governo Netanyahu. A lui, infatti, viene attribuito l’accumularsi di tensioni represse che ora sembrano andare esplodendo nella società israeliana.

Vale la pena elencare qualcuna delle sue uscite che hanno segnato il rapporto fra il premier e la minoranza. Nel 2015, nella giornata delle elezioni, Bibi diffondeva un video su Facebook a poche ore dalla chiusura dei seggi in cui cercava di mobilitare gli elettori di destra agitando lo spauracchio degli arabi. «Il potere della destra è in pericolo. Gli elettori arabi si stanno recando in massa ai seggi. Le ong di sinistra ce li portano con gli autobus», declamava nel video, presentandoli come una quinta colonna nello stato. «È allarme rosso! Uscite e votate il Likud! Col vostro aiuto, e con l’aiuto di Dio, salveremo Israele!». Nel luglio 2018, poi, Netanyahu volle una legge fondamentale in cui si dichiarava Israele «stato-nazione degli ebrei», un fatto vissuto con forte disagio dagli arabo-israeliani.

Ora che Israele si trova a fronteggiare una delle crisi peggiori dalla Seconda Intifada – va ricordato che anche quella rivolta nacque dalla Spianata delle Moschee di Gerusalemme, dove il leader dell’opposizione Ariel Sharon si esibì con un’improvvida passeggiata – anche il percorso politico di Netanyahu rimane alquanto accidentato. Anche dopo il ritorno all’ovile del suo ex collaboratore Naftali Bennett, che non basta a garantire il sostegno dei 61 deputati necessari per creare una coalizione di governo. A meno che Bibi non riesca a fare appello al principio dello “Sheket iorim”, “silenzio si spara”, richiamando all’ordine ex alleati delle destre ebraiche con cui negli anni ha sviluppato faide personali. Fra questi Avigdor Lieberman, anch’egli suo ex collaboratore, e Gideon Saar, dissidente di lunga data dentro al Likud che infine ha scelto la via della secessione.

I piani per l’invasione

Il caos politico rimane comunque in secondo piano mentre precipita sempre di più l’emergenza di sicurezza. Gaza, un fazzoletto di terra che si percorre in un’ora e mezza a piedi dal mare al confine orientale, e in una mezz’ora di macchina lungo la trafficata “Via Saladino” da nord a sud, continua a subire centinaia di bombardamenti dell’aviazione, e conta fra le vittime anche 19 donne e 31 minori. Sui tavoli della leadership dell’esercito israeliano stanno nel frattempo arrivando i piani per un’eventuale invasione di terra, già annunciata e poi subito smentita nella serata di giovedì. Come insegnano le precedenti operazioni militari sulla striscia, la fase dell’offensiva di terra è sempre la peggiore. E potrebbe non soltanto decuplicare le vittime civili palestinesi e moltiplicare quelle militari israeliane, ma anche gettare benzina sui focolai di violenza all’interno del paese. A quel punto il peggio sarebbe davvero arrivato.

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