La destra israeliana ha un problema più ostico dei tunnel di Hamas: Washington le sta voltando le spalle. E proprio adesso, mentre tutti i principali attori della mischia mediorientale cominciano a posizionarsi in vista di un cessate il fuoco. Ieri il “primo ministro” nominato dall’Autorità palestinese, Mohammad Shatayyeh, si è dimesso per «favorire l’unità», formula vaga dietro la quale si intravedono le pressioni americane.

Il “governo palestinese” amministra appena una parte di West Bank. Ma in un futuro potrebbe essere chiamato a rappresentare tutta la popolazione araba, inclusa la costituency di Hamas, in un negoziato internazionale sui futuri assetti dei Territori occupati che gli americani promuovono e il premier Benjamin Netanyahu vuole fermamente evitare.

Sul dopo-Gaza ormai le divergenze americane e israeliane sono così vistose da lasciar pensare che l’andamento della guerra dipenderà anche da come evolverà quel tintinnio di spade.

Non è un mistero che Biden detesti Netanyahu. Resta da capire fino a che punto sia disposto a dispiacere alla poderosa lobby pro Israele quando mancano appena sette mesi alle elezioni presidenziali. Di sicuro Trump deve aver tratto auspici favorevoli dagli attacchi a Biden da parte di notabili del Likud. Il più esplicito è Zalman Shoval, ex ambasciatore all’Onu.

Sul Jerusalem Post enumera gli “errori” dell’amministrazione Biden e incita gli alleati statunitensi alla rappresaglia («Come in passato, Israele chiamerà a sostegno i suoi amici nei due schieramenti del Congresso, nei media, nelle organizzazioni ebraiche»).

A provocare l’ira della destra israeliana è stato il cambiamento di rotta americano successivo al verdetto dell’Internationl Court of Justice, Icj.

Su proposta del Sudafrica, e contro gli auspici espressi dagli occidentali, quel tribunale Onu ha definito «verosimile» (plausible) che a Gaza fosse in corso un “genocide” e ha ingiunto ad Israele di astenersi da altre azioni sospette (“genocide” è un termine tecnico-giuridico che andrebbe tradotto in “pulizia etnica”, non in “nuovo Olocausto”, come del resto è chiaro dal precedente giudizio della corte Onu contro la Birmania per l’espulsione violenta dei Rohingya).

Nelle settimane successive il governo Netanyahu ha continuato a bombardare tutto, confermando il sospetto che il suo obiettivo sia rendere inabitabile la Striscia e spopolarla per mezzo delle “emigrazioni volontarie” caldeggiate da vari ministri. Però in occidente è cominciato un ripensamento.

Negoziato internazionale

In particolare, Washington ha ribaltato la posizione tradizionale nella politica americana, per la quale soltanto israeliani e palestinesi dovrebbero trattare sul futuro dei Territori occupati.

Adesso l’amministrazione Biden vuole un negoziato internazionale guidato da vari soggetti, tra stati e organizzazioni mondiali, e con un esito prefissato: la nascita di uno stato palestinese.

E ancora: seguiti da Gran Bretagna e Francia, gli Usa hanno varato sanzioni ad personam contro capi dei coloni del West Bank, punizioni equivalenti a sostenere che Israele non è compiutamente uno stato democratico (se lo fosse, quei governi non si sarebbero sentiti in obbligo di trattare da furfanti pericolosi cittadini mai disturbati dalla giustizia israeliana).

Un passo analogo, discusso dall’Unione europea, è stato impedito dal veto dell’Ungheria. Ma nonostante i boicottaggi ungheresi anche nell’Unione «l’atmosfera sta cambiando», commenta Mario Carnelos, ex ambasciatore italiano in Iraq.

Il Servizio europeo per l’azione esterna (Seas), l’ufficio della Ue che raccorda le diplomazie dei 27, ha fatto circolare un testo informale che raccomanda di avviare un processo di pace, a guerra conclusa, con modalità per Israele assai indigeste: infatti chi guidasse il negoziato sarebbero nelle condizioni di decidere “conseguenze” per le parti recalcitranti.

Le “conseguenze”, ecco la questione dura.

Finché americani ed europei non tradurranno i loro ammonimenti in gesti determinati, non basterà qualche gomitata per indurre ripensamenti o spaccature nel governo israeliano.

Chi giustifica le esitazioni occidentali spiega: Israele ha subito un attacco di una violenza inusitata; certo, la sua reazione risulta indifendibile; ma comunque è l’alleato dell’Occidente nella regione petrolio.

Questo dato di fatto che conduce al solito dilemma: una onesta e ferma difesa dei capisaldi del diritto internazionale è un impaccio per una politica estera, un regalo agli avversari, uno spararsi sui piedi? O invece non è velleitario, e anzi offrirebbe un vantaggio strategico alle democrazie?

Negli Usa e nella Ue trova ascolto crescente una tesi in controtendenza: assecondare Israele e accettare come inevitabile quel che accade alla popolazione di Gaza, non solo non è etico ma neppure è conveniente.

Non è nel nostro interesse lasciare la bandiera dei diritti umani al Global South, come invece era accaduto nell’aula dell’Icj: tra i quaranta paesi che appoggiavano l’atto d’accusa del Sud Africa non uno era occidentale.

Se gli occidentali si pretendono il sodalizio degli stati di diritto liberali, vulgaris “democrazie”, per coerenza dovrebbero essere i primi a difendere le regole senza le quali il pianeta diventa un mattatoio.

Ad opporsi non solo ai Putin e agli Hamas ma anche alla destra israeliana. Altrimenti il mondo concluderà che “occidente” è solo un club di potenze ex coloniali o neo-coloniali. O peggio, una tribù avida e amorale, come raccontano Mosca e regimi consimili.

Vale la pena di tornare a quel che accadde nel 1956 non lontano da Gaza: la crisi di Suez. Nasser nazionalizzò il Canale, la via di accesso dal Mar Rosso al Mediterraneo, la rotta delle petroliere dirette in Europa.

I maggiori azionisti del Canale erano banche francesi e inglesi. Londra e Parigi concordarono in segreto con Israele un piano per riprenderselo. Quando ormai parevano riusciti, accadde l’imprevisto: Eisenhower pretese e ottenne che gli invasori si ritirassero. Perché sgambettò sul traguardo gli alleati quando c’erano le premesse per fare di Suez un canale ‘occidentale’?

Le ragioni furono diverse ma la principale era di carattere etico-politico: gli Stati Uniti vollero segnalare al Terzo Mondo che consideravano conclusa l’era degli imperi coloniali e sostenevano attivamente la decolonizzazione.

Fu un modo intelligente per togliere spazio a Mosca, e una buona sintesi tra l’interesse nazionale e il profilarsi di un nuovo diritto internazionale, di cui Washington, all’epoca non solo per convenienza, si faceva alfiere.

Ecco un esempio di politica d’influenza che ci potrebbe ispirare. Non sempre a muovere la storia è la potenza finanziaria e la potenza di fuoco, la geopolitica (qualunque cosa si intenda per “geopolitica”) o la “civiltà” (qualunque interesse pratico si nasconda dietro “civiltà”).

Talvolta entrano in gioco sentimenti non misurabili con il metro della forza – emozioni, reazioni morali, empatia, ideali, senso della dignità. Richiamarsi al diritto internazionale aiuta a dare forma a questo contesto, lo traduce in un linguaggio universale, lo precisa.

Ovviamente non ci si può attendere che la giustizia possa fermare gli eserciti o sostituire la diplomazia. E il diritto umanitario internazionale è incerto, trattandosi di un work in progress appena iniziato.

Ma essendo universali, le sue categorie giuridiche diventano indispensabili quando si tenta di costruire una rappresentazione degli eventi condivisibile dalla gran parte del pianeta, di smascherare crimini e di prevenirne altri, di mettere sull’avviso i colpevoli mostrandone al mondo l’indegnità.

Lo stato binazionale

Gaza, per esempio. Se la Corte penale internazionale (Icc) potesse produrre una ricostruzione non contestabile del massacro di civili israeliani, il fondamentalismo arabo e l’oltranzismo palestinese sarebbero obbligati a fare i conti con le infamie che non vogliono vedere o travestono da “lotta al colonialismo”. Forse Hamas non sarebbe così popolare nel West Bank e i suoi vertici avrebbero difficoltà a trovare ospitalità in Qatar e altrove.

Eppure proprio Israele boicotta il lavoro della Corte, e cinque paesi europei, inclusa la Germania, ne contestano la giurisdizione. Quel che si teme, infatti, è che l’Icc indichi colpe e colpevoli anche sul lato israeliano.

Ma se non lo facesse, sarebbe facile spacciarla per uno strumento occidentale e non potrebbe bilanciare il diffondersi nei due campi di un odio forsennato che preclude l’unica soluzione logica: avviare un percorso, sia pure prudente e circospetto, per inventare una confederazione tra due stati, l’uno arabo e l’altro ebraico.

A parlarne in questo momento si passa per dementi ma l’idea di quello stato binazionale era discussa in Palestina già un secolo fa, e non è stata cancellata dalla ferocia della mischia.

Lo richiamava sul Mulino Simon Levis Sullam nel 2021, mentre era in corso l’ennesima carneficina. Dice al programma Tagadà il liberal israeliano Yossi Beilin, ex ministro della Giustizia: la confederazione resta l’unica strada per disinnescare il problema più ostico, il destino dei 450mila coloni del West Bank.

La gran parte combatterebbe una guerra civile piuttosto che restare precariamente sotto la bandiera della Palestina.

Ai più l’ipotesi della stato binazionale appare velleitario non meno che ricorrere al diritto internazionale per leggere la mischia di Gaza. Ma come intuì Eisenhower nel 1956, quando un’epoca finisce e un’altra sta per cominciare, possono rivelarsi efficaci proprio le mosse che rompono gli schemi tradizionali, ne fondano altri e si pongono alla testa del cambiamento.
 

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