Puno si affaccia su uno dei luoghi più turistici e belli dell’America latina: il maestoso lago Titicaca, il lago navigabile più alto del mondo che ogni anno attira decine di migliaia di persone. La zona, una delle regioni più rurali di tutto il Perù, vive soprattutto di turismo ma oggi la situazione è ben diversa e la città andina è praticamente deserta.

Nel piccolo porto fluviale di Puno si trova anche il principale mercato artigianale della città dove si vendono ceramiche, coperte e gioielli fatti a mano da decine di artigiane delle zone rurali che ogni giorno camminano fino alle sponde del lago per offrire ai rivenditori i loro prodotti. Oggi la maggior parte di serrande del mercato sono abbassate e sui muri sono appesi cartelli su cui si legge: “Sosteniamo lo sciopero a tempo indeterminato”, “Dina rinuncia, chiusura del Congresso” o “Boluarte assassina”. Fra i vari negozietti si aggirano due donne in abiti tradizionali andini, stanno offrendo ai commercianti zaini e borsette che hanno ricamato a mano, ma la risposta è sempre la stessa: «Mi spiace, ma da quando sono iniziate le proteste non ci sono più turisti, non posso comprare nulla».

Le proteste

Da quasi tre mesi il paese latinoamericano è paralizzato da una rivolta che sembra non avere fine. Il 7 dicembre scorso il presidente democraticamente eletto Pedro Castillo ha tentato di mettere in atto un colpo di stato sciogliendo il Congresso, ma il suo intento è fallito: è stato arrestato e al suo posto è stata nominata Dina Boluarte, ex vicepresidente del governo Castillo. La reazione è stata immediata e migliaia di persone (soprattutto nel sud del paese) si sono riversate in strada per protestare contro l’arresto dell’ex presidente.

Purtroppo sin dalle prime ore è stato chiaro che la repressione delle forze dell’ordine sarebbe stata brutale: bombe lacrimogene, pestaggi di gruppo, detenzioni arbitrarie e spari con armi da fuoco al petto o al viso dei manifestanti. Fino a oggi, secondo i dati ufficiali, i cittadini morti durante le proteste sono 60 ma le associazioni che seguono i casi denunciano che sono quasi 80, mentre è impossibile stabilire quanti siano i feriti (anche in condizioni gravissime) e gli incarcerati, accusati di terrorismo o crimine organizzato. Puno è in assoluto la provincia più colpita del Perù: i cittadini uccisi sono ben 29. Ed è anche la zona che sta soffrendo l’isolamento peggiore, il vicino aeroporto di Juliaca è fuori servizio a causa delle proteste e ogni giorno i manifestanti fanno decine di blocchi stradali che rendono impossibile arrivare nelle città e nelle zone più turistiche della regione.

Dalla parte dei manifestanti

Sono molti i ristoranti e le agenzie turistiche che oggi sono chiusi, ma quasi tutti i proprietari sono dalla parte dei manifestanti. Se le proteste il 7 dicembre scorso sono iniziate per l’arresto di Castillo, nel tempo sono radicalmente cambiate. Oggi sono solo una netta minoranza le fazioni di manifestanti che richiedono la scarcerazione dell’ex presidente, la grande maggioranza invece scende in piazza per chiedere le dimissioni di Dina Boluarte e più giustizia sociale. A invadere le strade sono le fasce più povere del paese che stanno facendo una vera e propria rivoluzione e stanno riuscendo a paralizzare il Perù intero con proteste molte articolate che vanno dallo sciopero sul luogo di lavoro, a decine di delegazioni che dalle aree di campagna ogni giorno raggiungono la città più vicina per manifestare, fino a occupare gli aeroporti più utilizzati dai turisti e a bloccare le strade principali con barricate fatte di massi e terra.

«Per me queste proteste sono un danno enorme, però non posso che essere d’accordo con chi manifesta. Questo paese deve cambiare, la maggior parte di persone fa la fame. La colpa di questa situazione non è di chi scende in piazza, ma della presidente che non rinuncia al suo incarico», dice Pablo, ristoratore di 45 anni mentre la piazza principale si riempie di centinaia di persone. «Non abbiamo leader, ogni giorno spontaneamente veniamo in piazza perché siamo indignati», spiega Maria Flores, 52 anni, mentre Nancy, 40 anni, aggiunge: «Ci chiamano terroristi, ma non lo siamo. Siamo qui perché in Perù c’è troppa disuguaglianza. Nelle zone rurali non abbiamo ospedali, scuole o acqua calda. La povertà che c’è qui è inumana, non abbiamo da mangiare».

Le discriminazioni 

Anti-government protesters participate in a motorcycle caravan in Juliaca, Peru, Monday, Jan. 30, 2023. Protesters are seeking immediate elections, President Dina Boluarte's resignation, closure of the Congress and the release of President Pedro Castillo, who was ousted and arrested for trying to dissolve Congress in December. (AP Photo/Rodrigo Abd)

Nonostante il paese latinoamericano negli ultimi anni sia cresciuto dal punto di vista economico, ne ha giovato solo una ristretta élite mentre le condizioni sociali della maggior parte della popolazione non sono migliorate, con servizi basici non garantiti e senza accesso a istruzione o sanità pubblica di qualità. E la pandemia non ha fatto altro che peggiorare la situazione: secondo l’ultimo rapporto di Oxfam, la ricchezza dei miliardari nel paese è aumentata ben del 50 per cento nel 2020 mentre il Perù è retrocesso di 10 anni per quanto riguarda la lotta alla povertà dato che oggi il 30,1 per cento dei cittadini risultano indigenti.

«Il nostro è un paese profondamente discriminatorio e razzista», sostiene Jennie Dador, avvocata e segretaria esecutiva della Coordinadora nacional de derechos humanos, l’ente che sta seguendo i casi dei manifestanti che hanno subito abusi. «Da Lima», continua Dador, «si guarda sempre alle popolazioni indigene o a chi vive nelle zone rurali come se fossero un’altra popolazione». La discriminazione in Perù non è solo una questione di razza o di classe, ma anche territoriale. La maggior parte dei fondi viene infatti investita nella capitale Lima, mente gli abitanti delle zone rurali non possono nemmeno contare su un sistema fognario. Dall’inizio delle proteste inoltre la classe politica e i principali media del paese si sono rivolti ai manifestanti con epiteti razzisti o denigratori, chiamandoli “delinquenti” o “terroristi” e affermando che stanno scendendo in piazza senza sapere cosa vogliano.

«La politica sostiene di voler avviare un dialogo con i manifestanti», dice Dador: «Ma concretamente non fanno nulla. In una mano hanno il dialogo, nell’altra una mitraglietta». Dal 7 dicembre scorso infatti il Congresso ha rifiutato 9 progetti di legge per anticipare le elezioni e la presidente Dina Boluarte continua a non voler rinunciare al suo incarico. «Come femminista mi fa molto male che lei sia la prima presidente donna del paese e che da quando è arrivata al potere non abbia fatto altro che distruggere la vita», aggiunge l’avvocata, «dagli anni Novanta non avevo più visto tanto dolore in questo paese e ora l’ho rivisto perché sono stata a Juliaca e ad Ayacucho. Sono stanca di vedere donne vestite di nero che piangono per i loro figli o mariti uccisi».

I passanti uccisi

A sconvolgere l’opinione pubblica internazionale sono state proprie le foto delle madri che piangevano sopra le 17 bare al centro di Juliaca, città limitrofe a Puno, dove il 9 gennaio scorso la polizia ha sparato e lanciato bombe lacrimogene da un elicottero contro i manifestanti che cercavano di occupare l’aeroporto. Fino ad oggi la politica peruviana non ha dato risposte per quelle morti e, come sostengono i familiari dei manifestanti deceduti, per loro non è stato nemmeno possibile denunciare quanto accaduto dato che i commissariati della zona sono fuori servizio. Quel giorno a essere uccisi non sono stati solo i manifestanti, l’attacco degli agenti delle forze dell’ordine è stato così feroce che sono stati numerosi i cittadini assassinati mentre stavano semplicemente camminando.

È il caso di Jhamileth Aroquipa, uccisa a soli 17 anni davanti all’aeroporto di Juliaca lo scorso 9 gennaio mentre camminava con suo padre e sua madre per andare al mercato. Un proiettile l’ha colpita allo stomaco ed è morta sul colpo. «Mia figlia era una brava ragazza, una studentessa», sostiene suo padre Demetrio, «non era una terrorista o una vandala. I politici dicono che a Puno siamo tutti terroristi, ma non è così. Stavamo solo andando a fare la spesa e l’hanno uccisa. Vorrei solo che me la potessero restituire, per abbracciarla di nuovo e per vederla realizzare i suoi sogni. Non so come descriverlo, ma il dolore è immenso. Perdere un figlio vuol dire avere un vuoto enorme in casa e nel cuore. Chiediamo solo giustizia».

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