C’è un prima e un dopo. L’invasione russa in Ucraina è uno spartiacque nella storia dei due paesi coinvolti, ma anche del resto d’Europa e del mondo. Riflessioni retoriche e può darsi un po’ banali, ma la realtà è che la decisione di Vladimir Putin di attaccare Kiev ha avuto ripercussioni immediate sul continente europeo, con imprevedibili implicazioni per il futuro.

Praticamente tutti gli stati europei, nel giro di pochi giorni dall’inizio della guerra, hanno infatti comunicato la volontà di destinare maggiori fondi e investimenti al comparto della difesa e della sicurezza. La minaccia russa, il ritorno della guerra sul suolo europeo e soprattutto le immagini dei carri armati, degli elicotteri da combattimento sopra i villaggi ucraini, dei caccia in volo che bombardano le città, hanno reso il settore della difesa prioritario agli occhi delle capitali occidentali.

Il desiderio di rendere più efficienti i propri eserciti, o quantomeno versare più soldi nell’industria e nel comparto della difesa, ha attraversato tutti i paesi, anche quelli tradizionalmente “pacifici”, neutrali o che da decenni non avevano – per scelta o talvolta obbligati – posto particolare attenzione all’ambito militare.

I dati

In realtà, nonostante gli stessi paesi, la Nato e alcuni centri studi indipendenti non forniscano sempre i medesimi dati, e quindi non ci sia una fonte unica da cui attingere con certezza le cifre precise, si può dire che la crescita della spesa in armamenti nel mondo vada avanti già da qualche anno. Lo Stockholm international peace research institute (Sipri), tra i maggiori centri di ricerca internazionali sul commercio e l’industria di armi, ha stilato lo scorso aprile l’annuale rapporto sulle spese militari globali. 

Nel 2021 hanno superato per la prima volta i 2mila miliardi di dollari, arrivando a 2.113, con un aumento dello 0,7 per cento rispetto al 2020. Un incremento che, sempre secondo il Sipri, dura dal 2015. Non a caso dall’anno successivo all’annessione russa della Crimea e all’inizio del conflitto tra Mosca e Kiev. 

Stati Uniti e Cina sono i primi due paesi: solo Washington è responsabile del 38 per cento della spesa militare, mentre Pechino del 14 per cento. In totale i quindici principali stati – tra cui Russia, India, Regno Unito, Francia, Germania ma anche Italia, Arabia Saudita, Iran e Israele – hanno speso in armi 1.717 miliardi di dollari nel 2021, ovvero l’81 per cento complessivo.

Se quindi nella realtà un generale aumento delle spese militari proseguiva già da prima dell’invasione russa e non è stato scalfito dalle conseguenze economiche della pandemia, a cambiare sembra essere l’attitudine delle cancellerie occidentali. I governi, infatti, hanno annunciato pubblicamente di voler raggiungere la famosa soglia del 2 per cento del Pil per le spese nella difesa richiesta dalla Nato, hanno parlato senza tentennamenti di ruolo imprescindibile per gli eserciti nazionali e della necessità impellente di prepararsi a livello difensivo a tempi incerti. Con particolare soddisfazione del segretario generale dell’Alleanza atlantica Jens Stoltenberg.

Il ritorno della Germania

Non si può non iniziare parlando della Germania. Il 27 febbraio – dopo soli tre giorni dall’attacco russo all’Ucraina – il cancelliere tedesco Olaf Scholz rendeva nota la decisione di istituire un fondo speciale dal valore di 100 miliardi di euro per la difesa. Il mondo è davanti a «una svolta epocale» e quindi, per l’erede di Angela Merkel, si rende inderogabile un rafforzamento e un ammodernamento della Bundeswehr.

Nel 2021 Berlino, secondo i dati del Sipri, è stato il terzo attore dell’Europa occidentale a spendere di più in ambito militare: 56 miliardi di dollari, circa l’1,3 per cento del suo prodotto interno lordo. Scholz ha sottolineato come la Germania «anno per anno, investirà più del 2 per cento del suo Pil sulla difesa». 

Una presa di posizione rilevante e per certi versi sorprendente per gli equilibri del continente, vista la sostanziale cautela, e quindi il ritardo, di Berlino riguardo il settore militare. Una condizione per molto tempo imposta dagli alleati alla Germania dopo la Seconda guerra mondiale. Ma la volontà di Berlino è chiara: la guerra si è avvicinata, le forze tedesche non possono essere prese alla sprovvista. 

Scholz lo ha ribadito anche a settembre quando ha detto che la Germania è pronta ad assumersi «un ruolo di primo piano nella responsabilità della sicurezza del continente». «Il nostro esercito», ha aggiunto il cancelliere socialdemocratico, «deve diventare il pilastro principale della difesa convenzionale in Europa, la forza armata meglio equipaggiata d’Europa». Tuttavia, dopo nove mesi dal primo annuncio di Scholz, gli investimenti ancora non sono stati sbloccati, tanto da far dubitare della capacità di Berlino di stanziare in maniera efficace e a stretto giro la cifra indicata dal cancelliere.

La strategia francese

I francesi, insieme ai britannici, sono in Europa le due popolazioni che hanno sempre speso di più per i loro eserciti. Come Scholz, anche il presidente Emmanuel Macron pochi giorni dopo il 24 febbraio ha evidenziato come l’Europa dovesse accettare «il prezzo per la pace, la libertà e democrazia», spingendo per accelerare il processo verso una difesa europea, ovviamente a trazione francese.

La Francia nel 2021 ha speso 56,6 miliardi di dollari, cioè l’1,9 per cento del proprio Pil, e da quando c’è Macron il budget militare del paese è aumentato in maniera costante. Proprio il presidente francese durante la recente campagna elettorale ha sottolineato l’esigenza per Parigi di «intensificare gli investimenti in armamenti per poter affrontare una guerra ad alta intensità».

Macron, in effetti, ha avviato un processo di rafforzamento delle forze armate francesi già nel 2017 con l’obiettivo – quasi raggiunto – di toccare quota 2 per cento del Pil in spese militari entro il 2025. Il 9 novembre scorso a Tolone il presidente ha definito quello iniziato cinque anni fa «un vero e proprio riarmo», e ha presentato un aggiornamento strategico, la Revue nationale stratégique, che visti i recenti accadimenti internazionali mira ad affrettare ancora di più la modernizzazione dell’esercito. Inoltre, Macron ha sottolineato l’importanza cruciale della deterrenza nucleare di cui dispone Parigi.

La Polonia e l’esercito più grande in Europa

Nel continente europeo il paese più preoccupato e interessato dall’invasione russa dell’Ucraina è, per ragioni storiche e geografiche, la Polonia. Per questo Varsavia non è rimasta impassibile. A metà marzo il presidente Andrzej Duda ha firmato la legge sulla “difesa della patria”, dal titolo e dagli obiettivi emblematici: raddoppiare il numero delle forze armate – passando da circa 140 a 300mila uomini nel giro di un decennio – e raggiungere il 3 per cento del Pil nelle spese militari entro il 2023, che nel 2021 è stato del 2,1 per cento (dati del Sipri).

Secondo quanto dichiarato dal premier Mateusz Morawiecki, alla fine del 2022 Varsavia arriverà a quota 2,4 per cento. Il massiccio incremento previsto porterà la Polonia ad avere l’esercito più grande di tutta Europa nel prossimo futuro, composto da circa 250mila soldati professionisti e 50mila membri della difesa territoriale. Ma i polacchi non vogliono fermarsi. Jaroslaw Kaczynski, leader del partito al potere Diritto e Giustizia, ha addirittura fissato come target di lungo periodo la soglia delle spese militari al 5 per cento.

Quale che sarà la reale percentuale a cui la Polonia si spingerà con gli investimenti sugli armamenti, premiando in particolare le industrie americane e sudcoreane, Varsavia giustifica lo scatto in avanti con le conseguenze della guerra in Ucraina. I polacchi, tra l’altro, non hanno mai fatto mancare il supporto militare a Kiev da quel 24 febbraio e sono nelle prime posizioni della classifica degli aiuti all’esercito ucraino.

La svolta danese

La guerra in Ucraina ha spaventato anche la Danimarca. Copenaghen a inizio marzo ha indetto un referendum nel paese per allineare la propria politica di difesa e sicurezza con il resto dell’Unione europea. Nella consultazione tenuta a giugno, i cittadini danesi hanno optato per una maggiore integrazione con il continente, dopo decenni di esenzioni e di posizionamenti contrari rispetto a Bruxelles.

La premier Mette Frederiksen, che oggi cerca di mantenere la guida del paese, nel marzo scorso ha esternato l’impegno ad aumentare il budget da destinare alla difesa, per assecondare le richieste della Nato, invocando «il più grande investimento negli ultimi decenni». Si parla di due miliardi di dollari nel giro di due anni e di arrivare al 2 per cento del Pil entro dieci anni, mentre oggi il paese, sempre secondo i dati del Sipri, è fermo all’1,4 per cento.

Copenaghen sembra aver individuato nella marina il reparto da potenziare maggiormente. In agosto il ministro della Difesa Morten Bødskov ha previsto una spesa di circa 40 miliardi di corone danesi (circa 5,5 miliardi di dollari) per sostituire diverse navi della marina militare.

Il contributo di Svezia e Finlandia

La richiesta di adesione all’Alleanza atlantica di Svezia e Finlandia dopo poche settimane dall’attacco del Cremlino all’Ucraina ha riempito pagine di giornali, considerata la neutralità che da sempre ha caratterizzato i due paesi scandinavi. Quello che non sempre è stato evidenziato è il proposito di Stoccolma ed Helsinki di aumentare parallelamente il budget per le spese militari. 

Un’intenzione confermata dalla Svezia con la vittoria dei conservatori nelle recenti elezioni, che hanno posto tra le priorità del nuovo esecutivo proprio il comparto difensivo. Il raggiungimento del 2 per cento è previsto per il 2028 (dall’1,3 del 2021), anche se dal governo sono giunte sollecitazioni affinché si anticipi al 2026 il particolare appuntamento. E intanto Stoccolma sta fornendo sempre più aiuti militari a Kiev, tra cui il fondamentale equipaggio invernale.

Anche la Finlandia di Sanna Marin, oltre a voler entrare nella Nato e alla costruzione di una barriera fisica sul lungo confine con la Russia, ha deciso di aumentare le spese militari del 40 per cento da qui al 2026. Helsinki di fatto possiede già un esercito efficiente, sia per quanto riguarda il numero di soldati effettivi, sia per gli strumenti militari – nello specifico nella difesa aerea – e già nel 2021 ha sfiorato il 2 per cento del Pil nel budget difensivo, con più di cinque miliardi stanziati. Tutto ciò rende la Finlandia in teoria già “pronta” per il suo ingresso nell’Alleanza atlantica.

I tentennamenti del Regno Unito

Un capitolo a parte lo merita il Regno Unito. Londra, tra i principali sponsor del supporto a Kiev e strenuo oppositore di Mosca, ha vissuto mesi intensi dopo le dimissioni di Boris Johnson, con la breve parentesi di Liz Truss e ora con Rishi Sunak come premier. Questi avvicendamenti tra i conservatori a Downing Street hanno causato contraccolpi sulle politiche annunciate del paese, anche sul tema difesa.

A giugno, Johnson ha dichiarato che il Regno Unito procedeva nel percorso verso il traguardo del 2,5 per cento del Pil nelle spese militari (oggi al 2,2) entro la fine del decennio. Liz Truss, in carica solo per un mese e mezzo tra settembre e ottobre, ha provato ad alzare l’asticella addirittura al 3 per cento nel 2030, con investimenti previsti per 100 miliardi di sterline. Ma la manovra finanziaria in cui era compreso questo obiettivo si è infranta sul nascere, portando alla caduta di Truss e dei suoi piani.

Sunak sembra restio a proseguire sulla linea di Truss (e del ministro della Difesa Ben Wallace) del 3 per cento, anche per via di un approccio cauto sui conti statali. Intanto però ha dato il via libera al contratto da 4,2 miliardi di sterline con Bae Systems per la costruzione di cinque nuove fregate militari. Londra resta comunque il quinto paese al mondo per spesa militare nel 2021.

L’impegno dell’Italia

L’Italia non si è defilata rispetto alle altre cancellerie europee. L’ex inquilino di Palazzo Chigi Mario Draghi fin dai primi giorni dopo l’invasione russa – in particolare con il suo discorso in parlamento del 1° marzo – ha ribadito di voler portare a termine la promessa assunta nel 2014 dal paese di arrivare al 2 per cento in spese militari rispetto al Pil. Quest’anno ballerà intorno all’1,5 per cento, secondo quanto comunicato da Roma agli organismi internazionali nel Documento programmatico triennale sulla difesa, in cui viene calcolata una spesa finale complessiva nel 2022 di 28,75 miliardi di euro, rispetto ai 28 del 2021.

Il bilancio militare è stata una questione su cui l’ex presidente del Consiglio ha avuto anche discussioni all’interno della maggioranza, mentre ha trovato una sponda dall’allora esponente dell’opposizione Giorgia Meloni, oggi capo del governo.

L’allora ministro della Difesa Lorenzo Guerini, nel marzo scorso, ha posto il 2028 come termine per arrivare alla percentuale chiesta dalla Nato. Un obiettivo che di fatto è stato lasciato pure dal suo successore, Guido Crosetto, che a novembre ha parlato di escludere le spese per gli investimenti della difesa dal computo del deficit nell’ambito del Patto di stabilità. 

Gli input europei

La voce di Bruxelles in questi mesi ha spinto i paesi membri a spendere di più sulla difesa. È stato Josep Borrell, Alto rappresentante dell’Unione europea per gli affari esteri e la politica di sicurezza, a lanciare tra i primi l’appello a una maggiore integrazione delle capacità industriali e militari tra i vari paesi europei. 

A marzo, quando i leader del Vecchio continente si sono riuniti a Versailles, è stato sottoscritto un documento in cui i 27 paesi si impegnano a investire di più e a incrementare in maniera sostanziale i propri bilanci militari. Il sogno di un esercito e di una difesa comune, sempre in collaborazione con la Nato, è stato tratteggiato e poi sviluppato nella Bussola strategica adottata a fine marzo.

Inoltre, Borrell nel consiglio dei ministri degli Esteri del 15 novembre, ha ricordato come gli stati membri dell’Ue entro il 2025 dovrebbero aumentare i loro budget militari di 70 miliardi di euro in totale, in modo da «essere pronti a combattere la guerra di domani, non quella di ieri». Per la guerra in corso in Ucraina, intanto, Bruxelles ha stanziato circa tre miliardi di euro a sostegno di Kiev.

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