La giornalista gazawi ha fondato insieme a suo marito Roshdi Sarraj l’agenzia Ain Media. A sedici giorni dal 7 ottobre è stato ucciso in un attacco israeliano. «Avevo pensato che il dolore più grande nella vita fosse perdere entrambi i genitori. Poi ho perso la mia anima gemella, e ho visto tutti i giardini del mio cuore andare in fiamme», racconta
«Elaborare il lutto, viverlo, durante un genocidio è un lusso». Shrouq Aila, giornalista palestinese che vive a Gaza, lo dice così, con lucidità chirurgica.
Non è una metafora, un’immagine letteraria, è la realtà di chi, in mezzo alla distruzione totale, non ha nemmeno il tempo per piangere. Non ha uno spazio in cui farlo.
Shrouq Aila risponde al telefono, via Whatsapp, dalla stanza in cui vive, dopo essere stata sfollata per nove volte negli ultimi due anni, insieme a sua figlia di tre anni, Dania. L’amore della sua vita, il padre della loro bambina, Roshdi Sarraj è morto quando hanno bombardato la casa che avevano appena finito di arredare con difficoltà, il 22 ottobre 2023.
L’attacco
«Nel sedicesimo giorno del genocidio, Dania è rimasta orfana. Aveva solo undici mesi. Crescerà senza un ricordo di suo padre. Le sono rimaste solo delle foto». Di quel giorno la giornalista palestinese ricorda ogni dettaglio: «Ho trovato Dania, viva. Si muoveva, ma non piangeva. La vista cominciava a diventare più chiara. Ho cercato di muovermi, ma qualcosa di pesante mi bloccava le gambe. Ho acceso la torcia del telefono, ma vorrei non averlo fatto. Roshdi giaceva sulle mie gambe».
Poi la corsa a piedi verso un ospedale, il tentativo disperato dei medici di tenerlo in vita. «Ho chiesto di vederlo. Il suo corpo non era freddo. Non ho notato la benda sulla testa né il gonfiore degli occhi. Gli ho toccato il viso. La barba che amavo. Le labbra, blu per il distacco dell’anima. Gli ho detto, senza rendermene conto: “Non avevamo deciso di invecchiare insieme? Perché hai infranto la promessa?”. Gli ho baciato la spalla e aveva un profumo così intenso che mi ha fatto dimenticare che se n’era andato».
Insieme Shrouq e Roshdi avevano fondato l’agenzia giornalistica Ain Media. «Avevo pensato che il dolore più grande nella vita fosse perdere entrambi i genitori. Poi ho perso la mia anima gemella, e ho visto tutti i giardini del mio cuore andare in fiamme», scrive Shrouq nel suo Hanno ucciso habibi, pubblicato in Italia dall’editore Wetlands, che ha scelto di devolvere alla giornalista palestinese tutti i proventi delle vendite compresi i diritti internazionali.
Shrouq Aila condivide la stanza in cui vive con Dania, con i suoi fratelli e le loro rispettive famiglie. «Ho dovuto aspettare che si addormentassero tutti per poter rispondere al telefono. Sembra di vivere in un asilo nido per quanti bambini ci sono qui intorno a me». Intorno, nelle ore precedenti, ci sono stati nuovi attacchi, «violazioni del cessate il fuoco» sottolinea la giornalista ripetendo che l’instabilità è tornata ad essere la normalità.
«Oggi mi sento persa. Anzi, non solo oggi. Dalla dichiarazione del cessate il fuoco ho sentito che un’altra guerra è iniziata in quello stesso istante. Una guerra che dura tutta la vita: le cicatrici profonde del dover imparare a vivere nel dopo, nella distruzione, senza le cose fondamentali. Vivere senza le persone amate, essendo mentalmente a pezzi e pensando all’incertezza del futuro. I confini sono ancora chiusi. Ho ricevuto molti inviti a viaggiare per conferenze, per ricevere un premio ma non posso farlo perché sono intrappolata qui, nella più grande prigione a cielo aperto del mondo. Sembra di essere congelati a metà tra la guerra e la pace».
Futuro incerto
Shrouq Aila racconta la vita sospesa: gli aiuti umanitari ancora troppo pochi, l’impossibilità di fare qualunque cosa, la difficoltà di trovare farmaci e curarsi. «E io non riesco a smettere di pensare al futuro e a cosa dovrei fare. Dovrei lasciare Gaza? O restare? E se Gaza non venisse ricostruita per anni? Cosa farò quando mia figlia crescerà e avrà bisogno della scuola? Lei merita di vivere in un posto adeguato. Siamo esausti di questo continuo sfollamento e del vivere con il minimo indispensabile».
Le prime piogge di novembre hanno allagato e colpito duramente le tende in cui vivono quasi 2 milioni di palestinesi che non sanno più dove andare. Intanto, altre tende nuove sono bloccate fuori e in Cisgiordania continuano le uccisioni e violazioni sistematiche di diritti umani. «Fortunatamente io e mia figlia fisicamente stiamo bene. Se non sei ferito qui si nota perché sei una minoranza ma mentalmente stiamo tutti male». Nessuno merita di vivere un minuto sotto un genocidio, ripete. «Ci sono stati giorni in cui non riuscivo a nutrire mia figlia. Sta crescendo con cibo in scatola, cibo spazzatura e io mi sento in colpa come madre anche se sono una delle poche persone fortunate qui ad avere una stanza in affitto e un reddito grazie al mio lavoro».
La passione per il giornalismo Shrouq Aila l’ha coltivata insieme a Roshdi. «È stato questo mestiere a farci conoscere: abbiamo lavorato fianco a fianco per due anni e mezzo. In lui ho trovato il riflesso di me stessa. Prima di allora pensavo che solo uno specchio ci potesse mostrare veramente chi siamo. Ma in Roshdi ho trovato qualcuno che leggeva la mia anima. Eravamo così simili che spesso dicevamo le stesse cose nello stesso momento».
Nonostante gli oltre 200 giornalisti uccisi dall’esercito israeliano dal 7 ottobre 2023, Shrouq è determinata a non smettere. «Prima del genocidio eravamo abituati a filmare storie», racconta. «Adesso molti di noi si sono ritrovati invece a diventarne una. A volte ho l’impressione di sentire i miei stessi sentimenti uscire dalle bocche degli altri. È come vivere ciò che sto filmando. Siamo tutti parte di quello che sta accadendo qui. Il mio obiettivo è ridare umanità ai numeri che scorrono sugli schermi. Ognuno ha una storia, persone amate, vite. Non lasciateci, stiamo ancora lottando».
© Riproduzione riservata


