Due bambini urinano sulla testa della statua di Hafez al Assad. Un giovane traina in motorino per le vie di Aleppo il suo mezzo busto. Un gruppo di miliziani, invece, dà fuoco alla sua tomba. Quello che si vede nei video circolati online nei giorni scorsi man mano che i ribelli jihaditsti di Hts liberavano le varie città del paese è solo una minima parte dei festeggiamenti culminati ieri nel primo venerdì di preghiera dalla caduta di Assad.

La rabbia iconoclasta con cui i siriani hanno buttato giù tutti i simboli del regime della famiglia Assad è il risultato della violenza del regime durata più di mezzo secolo che ha torturato e ucciso centinaia di migliaia di persone. Secondo i dati del Dipartimento di stato americano a fine agosto mancavano all’appello ancora più di 96mila tra uomini, donne e bambini. Sono numeri al ribasso, e infatti per le ong della diaspora siriana all’estero sono circa il doppio le sparizioni forzate. Impossibile identificare i numeri del terrore: secondo il Syrian Observatory for Human Rights sono minimo 60mila le persone morte in seguito alle torture. Dal 2011 secondo Report senza frontiere sono stati uccisi 181 giornalisti. Numeri da guerra.

Ma oggi Assad figlio non è più presidente della Siria ma un oculista rifugiato politico a Mosca. E gli islamisti che hanno preso il potere nel paese hanno intenzione di saldare i conti con il passato. Il leader dei ribelli, Abu Mohammed al Jolani, ha detto che non ci sarà alcuna amnistia. Ci sono liste già pronte con i nomi degli ufficiali del regime accusati dei crimini più atroci contro il popolo.

È ignoto, al momento, come saranno saldati questi conti. «Non abbiamo bisogno di slogan, chi ha commesso crimini non può lasciare impunito la Siria. Ma dobbiamo rispettare gli standard giuridici internazionali, creare un tribunale indipendente che faccia un percorso autonomo», dice Anwar al Bunni a Domani, avvocato siriano attualmente residente in Germania dove ha ottenuto anni fa l’asilo politico. «La giustizia siriana deve riguardare tutte le vittime, non solo i vincitori».

Anwar al Bunni conosce bene le carceri del suo paese. Il primo arresto risale nel 1978 a 19 anni. Successivamente ha pagato a caro prezzo, con cinque anni di carcere, aver difeso i prigionieri politici negli anni Novanta sotto il regime di Hafez Assad. Dopo lo scoppio della guerra civile si è rifugiato in Germania dove è entrato a far parte di un team di avvocati che ha una missione: «Ottenere giustizia» per le vittime della tirannia.

Insieme ad altri colleghi della diaspora ha raccolto – e continua a farlo – dossier sui crimini commessi da ufficiali e poliziotti siriani con l’obiettivo di aprire processi in Europa. Ma non solo. Ieri un tribunale federale di Los Angeles ha incriminato per tortura Samir Ousman Alsheikh, ex capo della prigione centrale di Damasco dal 2005 al 2008. «Abbiamo lavorato molto in questi anni e ora ci sono casi aperti nei tribunali di Germania, Francia, Svezia e Olanda», racconta.

A Coblenza, in Germania, nel gennaio del 2022 è stato condannato all’ergastolo per crimini contro l’umanità uno dei suoi aguzzini, l’ex colonnello Anwar Raslan, contro cui ha deciso di testimoniare. Sarebbe stato il mandante e supervisore di torture, omicidi e diversi altri gravi reati avvenuti nella sezione 251 della prigione al Khatib, che si trova vicino Damasco. Lì, secondo i giudici tedeschi, tra l’aprile del 2011 e il settembre del 2012, sono state uccise almeno 58 persone e torturate altre 4mila.

Stasi, nazisti e Hafez

Il regime repressivo di Hafez al Assad è stato per decadi un ingranaggio impeccabile. Costruito nei minimi dettagli. A fare scuola sono stati alcuni gerarchi nazisti che hanno trovato rifugio in Siria. Tra questi c’è Alois Brunner, condannato a morte in Francia dopo la seconda guerra mondiale per aver sterminato 135mila ebrei, deceduto a Damasco nel 2001.

«I nazisti e la Stasi sono stati i maestri da cui Hafez ha attinto per dare forma alla sua repressione, ma lui poi è stato più creativo nel pensare torture, uccisioni, arresti e sparizioni», dice al Bunni. Una delle torture più temute dai prigionieri politici e non solo era, non a caso, la «german chair». Una sedia che veniva usata per piegare all’indietro il corpo della vittima fino a schiacciarli le vertebre.

«Le torture avvenivano prima nelle caserme militari, chi sopravviveva veniva poi spedito nelle prigioni come quelle di Sednaya. Vicino alle caserme sono state trovate fosse comuni, corpi bruciati per nascondere le prove. Decine di uomini morivano ogni giorno», racconta Anwar.

Il futuro della Siria

«Quando ho letto le notizie sulla fine del regime di Assad ero molto contento ed eccitato. Sapevo che quel momento sarebbe arrivato prima o poi», dice al Bunni. Cosa accadrà ora? «I siriani non permetteranno al gruppo che ha preso il potere di comportarsi come Assad. Non permetteranno di sostituire una dittatura con un’altra dittatura. Ma c’è tanto lavoro da fare. Ci sono almeno 300mila bambini siriani che sono cresciuti in mezzo alla violenza e a cui è stato negato il diritto di andare a scuola», spiega al Bunni.

Che fine farà Assad? «Un giorno sarà processato e imprigionato per i crimini che ha commesso». Mentre il nuovo governo inizia la transizione politica dall’esito incerto, dalle carceri escono i prigionieri. Appaiono increduli di fronte alla notizia della caduta del regime. Piangono davanti ai parenti invecchiati, irriconoscibili dopo decenni di isolamento. Non tutti sono fortunati di rivedere un proprio caro.

«Ho tanti amici che sono stati carcerati, ma nessuno è vivo. Il mio migliore amico, un avvocato con cui negli anni Novanta difendevamo i prigionieri politici, è sparito dal 2020.

Chi viene liberato inizia una nuova vita. Ma sono pochi rispetto al numero enorme di chi è sparito», racconta al Bunni.

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