Il fenomeno politico che va sotto il nome di “polarizzazione” caratterizza gli Stati Uniti da almeno trent’anni. Questo quotidiano ne ha parlato, il concetto di polarizzazione è comunemente utilizzato dai commentatori di ogni paese e viene usato anche discutendo dei sistemi politici europei, ultimamente a proposito delle elezioni svedesi e di quelle italiane.

Sappiamo che l’America, in questo trentennio post Guerra fredda, è il “polarizzatore in capo” dell’occidente. E sappiamo che è trascorso un tempo sufficiente perché se ne occupino non solo gli scienziati politici e sociali, gli psicologi – si parla di “polarizzazione emotiva” – ma anche gli storici: questi ultimi lo fanno studiando la storia degli “agenti della polarizzazione” degli anni Novanta, ovvero i repubblicani.

Abbiamo memoria di un episodio di totale delegittimazione e disconoscimento dell’avversario – il tentativo di impeachment contro Bill Clinton nel 1998 – che non è stato solo battaglia contro il presidente democratico in carica, ma anche parte di un processo di radicalizzazione del conflitto politico che i repubblicani avevano avviato da qualche anno. I “polarizzatori” del sistema politico erano quelli che la storica Nicole Hemmer ha definito i “partisans” nel titolo di un suo libro molto recente. Altrettanto chiaro e significativo il sottotitolo: “The conservative revolutionaries who remade american politics in the 1990s”.

Il polarizzatore sfortunato

Il leader politico di quella strategia è stato Newt Gingrich, speaker della Camera dal 1995 al 1998 e principale oppositore pubblico di Bill Clinton. Un leader politico abile e colto, ancora ascoltato, che è rimasto però impigliato in alcuni errori e troppe ambizioni, tanto da non riuscire ad arrivare a candidarsi alla presidenza nelle elezioni del 2000, non riuscendo nemmeno a partecipare alle primarie.

Non era ancora arrivato il tempo, per un radicale a suo modo eccentrico, di poter aspirare davvero al ruolo di presidente. Per una radicalizzazione del partito democratico e un aumento del peso specifico dei “radicals” progressisti, invece, si dovrà aspettare il 2016 e le primarie del secondo posto di Bernie Sanders (ma quella è tutta un’altra storia, con altre caratteristiche: una delle quali è la natura assai più “antisistema” e disgregatrice del radicalismo conservatore rispetto a quello progressista).

La strategia polarizzante di Gingrich, oggi, è il pane quotidiano dei repubblicani americani: fare leva sugli elementi di polarizzazione ideologica, sociale, razziale e territoriale presenti nel paese per galvanizzare una quota di elettori – radicali, appunto, a volte molto ben organizzati e finanziati – che possano essere decisivi nelle primarie e nelle elezioni generali. Una strategia che appare ancora più razionale nelle elezioni di metà mandato, che sono quasi sempre un referendum sul presidente in carica: si motivano gli “anti”.

Un gioco ancora più semplice per i repubblicani, data la consueta pigrizia elettorale di una parte consistente dei democratici durante le elezioni di midterm, specialmente nella sua base sociale meno politicamente coinvolta, che spesso coincide con quella giovanile e delle minoranze.

Meno si vota, più si polarizza

Facciamo solo un confronto numerico: nelle ultime elezioni presidenziali, quelle del 2020, ha votato il 66,8 per cento degli aventi diritto, una percentuale alta per gli standard attuali degli Stati Uniti; nelle metà mandato del 2018 aveva votato il 49,4 per cento degli aventi diritto. Il dato del 2018 aveva fatto gridare al miracolo – il dato di partecipazione alle midterms più alto dal 1914, superiori del 13 per cento rispetto al 2014 – ed era stato largamente motivato dalla volontà di reagire al trumpismo da parte di un elettorato democratico assai scosso. E nonostante il miracolo, aveva partecipato il 17 per cento in meno di aventi diritto di quelli del 2020.

Le midterms sono abitualmente poco partecipate, e non a caso ha fatto scalpore il dato del 2018. È un terreno fertile per gli elettori legati a organizzazioni e gruppi d’interesse, motivati, galvanizzati da qualcosa; e questo è soprattutto vero nelle primarie dei partiti, dove candidati radicali hanno chances ulteriori di ottenere consenso da gruppi organizzati per issue e campagne. Oppure per quelli vogliosi di punire il presidente in carica. Il suo partito, di solito, perde consensi in ogni metà mandato: in questo caso il fattore scatenante sarà l’inflazione.

Per i repubblicani, in questo 2022, valgono entrambi i fattori. Il Gop, infatti, non può rinunciare a una fetta di credenti Maga (Make America great again, lo slogan di Donald Trump nel 2016) che sono schierati in queste elezioni con lo scopo primario di punire il furto elettorale del 2020, poiché sono ancora pienamente convinti che di tale si sia trattato.

La chiave del successo resta possedere strumenti per alzare la temperatura e portare a votare elettori molto schierati e combattivi, che rappresentano il “tesoretto elettorale” dal quale muovere per puntare a crescere. Non importa che lo strumento sia una bugia, ovvero che la vittoria di Biden è stata una frode. I Maga si presentano in questa campagna nel ruolo di “negazionisti del voto” del 2020, blanditi da quello che un tempo avremmo definito il partito mainstream.

La conquista dei Maga

Il più pittoresco fra loro è forse Mark Finchem, che però si candida a segretario di Stato dell’Arizona e non al Congresso, in uno stato politicamente bollente poiché i cambiamenti socio-demografici lo stanno portando nelle braccia dei democratici, dopo decenni di fedeltà al Gop.

Finchem è divenuto celebre per aver vinto nonostante abbia partecipato all’assalto del Congresso del 6 gennaio 2021 e faccia parte di una milizia armata di estrema destra, gli Oath Keepers. Al Congresso, invece, si presume che entreranno alla Camera dei rappresentanti almeno 117 “election deniers” e sette “dubbiosi” (i dati sono stati elaborati da FiveThirtyEight): sondaggi alla mano, circa il 50 per cento del futuro gruppo parlamentare repubblicano; solo in 7 stati su 50 non sarà presente a nessuno livello un “election denier”. Un quadro che pare confermare quello che il commentatore Ronald Brownstein sostiene a proposito di queste elezioni: si tratta di un test – il voto, ma anche l’attività del prossimo Congresso – sul fatto che gli americani possano ancora trovare una forma di accordo su una realtà condivisa (convergenze politiche sarebbe chiedere troppo).

Le mosse di Joe Biden

Biden ha reagito a questo stato di cose con sei mosse: ha cercato di raffreddare i prezzi, in particolare quello della benzina (la cosa è riuscita forse solo in estate, non ora che si approssimano le elezioni), una mossa per l’elettore “comune”; ha trasformato la questione della sentenza della Corte suprema sull’aborto in una chiamata alle armi per galvanizzare i democratici; ha puntato su una proposta federale di legalizzazione della cannabis, che avrebbe un effetto immediato sulle vittime della guerra alla droga di alcuni stati americani (soprattutto fra i giovani e le minoranze); ha aiutato i giovani con una misura a favore di chi ha contratto un debito d’onore per studiare all’università; ha avallato, si presume, la strategia democratica di sostenere candidati Maga nelle primarie repubblicane, immaginando che possano alienare elettori repubblicani moderati nelle elezioni generali (sono piovute critiche per questa scelta, sia di carattere etico che strategico); e, in ultimo, ha aperto la sua personale battaglia polarizzante: chiamare il partito repubblicano “semi-fascista” e i “Maga republicans” un pericolo per la democrazia. Lo ha fatto per la prima volta in una iniziativa di partito a fine agosto, ma lo ha fatto rovesciando la sua stessa retorica, quella all’apertura verso il fronte repubblicano.

Questa è una sommaria fotografia di quanto covi sotto la cenere dell’assalto al Congresso del 6 gennaio, il vero spartiacque della storia democratica americana più recente. Il prossimo periodo di “governo diviso” potrebbe essere il prosieguo politico del 6 gennaio, non un buon viatico per il 2024. Certo è che qualcuno, prima o poi, dovrà vincere questa nuova “guerra civile fredda” che si combatte da anni. E il 2024 pare la data in cui si potrebbe decidere molto. Il 2022 è solo il primo round.

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