Mark Rutte ha già provveduto a suonare l’allarme su «l’enorme rafforzamento delle capacità militari della Cina». Non solo: a inizio giugno per la prima volta la tv di Stato cinese ha svelato una serie dettagli sui missili balistici intercontinentali DF-5. Come si è visto sui cieli del Kashmir, il Dragone sta segnando un netto cambio di passo sulla difesa. Guardando anche all’export
Un “game changer”, un evento in grado di “segnare una svolta” nella regione Asia-Pacifico. Gli esperti militari hanno definito così la battaglia nei cieli del Kashmir conteso tra Pakistan e India nella notte tra il 6 e il 7 maggio scorso. I caccia di Islamabad J-10C armati di missili PL-15 - entrambi made in China - hanno distrutto diversi jet indiani, tra cui almeno un Rafale. Tre eventi in uno: primo combattimento per i caccia cinesi; primo abbattimento per il jet costruito da Dassault; prima vittoria di un caccia cinese su uno impiegato dalla Nato per proteggere il suo spazio aereo.
Quest’ultima circostanza è rilevante anche perché il multi-ruolo della compagnia francese è ritenuto - per autonomia e potenza di fuoco - superiore rispetto al “corrispettivo” della Chengdu Aircraft Industry.
Alla vigilia del vertice annuale del 24-25 giugno, Mark Rutte ha già provveduto a suonare l’allarme su «l’enorme rafforzamento delle capacità militari della Cina». Secondo il segretario generale della Nato, «la Cina possiede già la marina militare più grande del mondo e si prevede che questa forza da combattimento raggiungerà le 435 navi entro il 2030, e sta anche potenziando il suo arsenale nucleare: punta ad avere più di 1.000 testate nucleari operative entro il 2030».
Il 4 giugno scorso per la prima volta la tv di stato ha svelato una serie dettagli sui missili balistici intercontinentale DF-5 (12.000 km di gittata, testate tra 3 e 4 megatoni etc.). Secondo gli esperti del settore, l’inedita rivelazione è stata fatta per inviare un segnale agli Usa: Pechino ha già pronta una nuova generazione di vettori atomici, più potenti e sofisticati.
Il leader dell’Alleanza istituita nel 1949 per contrastare l’Unione Sovietica ha aggiunto che nel nuovo mondo in cui la guerra tra potenze è tornata d’attualità e le nuove tecnologie annunciano conflitti sempre più devastanti «non possiamo pensare che ci sia un unico teatro: dobbiamo essere consapevoli che quello euro-atlantico è interconnesso con ciò che sta accadendo nel Pacifico». L’aggressione russa all’Ucraina come le rivendicazioni cinesi su Taiwan e sui “suoi” mari: un teorema che Pechino respinge come un pretesto per proiettare la Nato nel Pacifico, rafforzandone la cooperazione con gli alleati Usa nella regione.
Il boom della difesa
Pechino sta investendo massicciamente nelle sue forze armate, che - in linea con il proclama di Xi Jinping in occasione del 90° anniversario della fondazione dell’Esercito popolare di liberazione (Epl), il 1° agosto 2017 - devono essere «pronte a combattere, capaci di combattere e in grado di vincere». Il bilancio approvato per il 2025 per la difesa è pari a 249 miliardi di dollari, con un aumento per il quarto anno consecutivo al di sopra del 7 per cento, superiore alla crescita del prodotto interno lordo. Se è vero che gli Usa spendono circa il triplo, è altrettanto vero che produrre armamenti in Cina costa molto meno. Insomma sul riarmo massiccio della Cina ci sono pochi dubbi: basta osservare i suoi cantieri che varano una nuova nave da guerra ogni sei settimane.
Sul mercato globale degli armamenti invece - secondo lo Stockholm Internationale Peace Research Institute - il ruolo della Cina è marginale: il 5,9 per cento nel periodo 2020-2024, in calo dal 6,2 per cento del 2015-2019. E nell’ultimo lustro il 63 per cento degli armamenti esportati dalla Cina sono andati al Pakistan, i cui militari (spina dorsale del “paese dei puri”) hanno stretti rapporti con l’Esercito popolare di liberazione.
Ma proprio la recente battaglia aerea su Kashmir ha evidenziato un cambiamento fondamentale nella sua aeronautica, che non si limita più a copiare velivoli russi e che ha con successo adottato un modello di integrazione verticale: tutti i componenti sono fabbricati in Cina.
Arriva il super-jet
E mentre i J-10C sono classificati come di generazione 4,5, sui social si è già scatenato l’orgoglio patriottico per le anteprime circolate dei voli del nuovo J-36, un caccia invisibile con raggio d’azione di 3.000 km (circa il triplo dell’F-35) con capacità di fuoco di gran lunga superiori al J-10C e in grado di annientare sciami di droni.
I rapidi progressi della Cina ne stanno rilanciando le ambizioni nel mercato globale degli armamenti. Finora destinati soltanto al quasi-alleato Pakistan, negli ultimi giorni per l’acquisto dei J-10C (prezzo stimato di 50 milioni di dollari, la metà dell’F-35) si sono fatti avanti Egitto e Indonesia.
Dopo le auto elettriche, le infrastrutture delle telecomunicazioni, gli impianti per produrre energia pulita, la Cina inizierà a esportare massicciamente armamenti? Sembra proprio di sì, come confermano i media di stato. La CCTV ha svelato i dettagli dell’FTC-2000G e dell’L15, due aerei da esportazione per addestramento e combattimento, destinati a rivelarsi altamente competitivi sul mercato globale grazie alle loro elevate capacità di svolgere entrambi i ruoli, ai costi contenuti, nonché al fatto che la Cina assieme agli aerei fornisce un supporto tecnologico completo.
L’influenza di Pechino sta aumentando rapidamente non solo come fornitrice di armamenti ma anche nell’addestramento degli eserciti. Sembra di assistere all’ascesa di una potenza globale che - almeno in quest’ambito - ripercorre il cammino degli Stati Uniti. In Africa sono sempre di più i paesi che ricevono sostegno militare a 360 gradi dalla Cina. Il generale Michael Langley, a capo del Comando Africano degli Stati Uniti (Africom), ha avvertito che «stanno cercando di replicare ciò che sappiamo fare meglio nel nostro programma IMET (International Military Education and Training)».
Trump chiude l’Africom?
E - anche in questo caso - le politiche di Trump sarebbero per gli Usa un boomerang: mentre il presidente Usa, per tagliare le spese, spinge, così come per la Nato, per ridurre la dipendenza militare dagli States dei paesi africani amici - e vorrebbe accorpare l’Africom al comando Usa in Europa, Pechino sostituisce Washington nel ruolo di fornitore e addestratore, a prezzi scontati.
Il mese scorso, Pechino ha ospitato un centinaio di funzionari militari provenienti da 40 paesi africani, nell’ambito di quella che è una strategia a lungo termine per rafforzare i legami di difesa in tutto il continente. Già al Forum sulla cooperazione Cina-Africa dell’anno scorso, il presidente cinese, Xi Jinping, si era impegnato a invitare 500 giovani ufficiali africani in Cina e ad addestrare 6.000 militari africani nel triennio fino al 2027. Inoltre, Pechino ha promesso 1 miliardo di yuan (139 milioni di dollari) in aiuti militari nell’ambito della sua Iniziativa per la Sicurezza Globale lanciata dallo stesso Xi.
Washington ha risposto con la Conferenza dei capi di stato maggiore della Difesa africana, ricevendo i vertici militari di una trentina di stati africani. Alla conferenza, Langley ha affermato che tra i suoi compiti, affidatogli dal segretario alla Difesa Pete Hegseth, c’è quello di «contrastare le ambizioni militari del Partito comunista cinese» nel continente. Con meno fondi e meno potere il suo sarà un lavoro arduo.
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