«Non gli parlo più». «Non c’è ragione di aspettare». Deluso, e furibondo come è quasi sempre, Donald Trump ha ridotto – più che dimezzandolo – il tempo che aveva dato a Vladimir Putin per decidere sui negoziati: Mosca aveva cinquanta giorni per predisporsi ai colloqui, ma adesso sono diventati dodici, anzi forse dieci. Improvvisamente, di tempo, non ne ha più il presidente, assediato in patria dai fantasmi dello scandalo Epstein, l’ultimo dei pantani da cui deve uscire.

L’altro è in Ucraina, dove aveva promesso di portare pace subito e invece la Russia attacca ancora più di prima. Ancora ieri, lanciando i suoi ultimatum e penultimatum, il tycoon ha chiosato: «Sono deluso da Putin, sono molto deluso da lui».

Cambi di rotta

Non si sa per certo invece se anche gli ucraini siano delusi da Trump, dalla sua linea basculante, dall’oscillazione che in questi mesi lo ha trascinato dalla vicinanza a Mosca fino al torchio a Zelensky nello Studio Ovale, dalla sospensione degli aiuti al ripristino immediato di essi per Kiev.

Anche l’Ucraina sembra diventata avvezza alle inversioni e cambi di rotta del presidente Usa, che procede capovolgendo tanto e spiegando poco. Secondo un sondaggio di aprile scorso condotto dal think tank New Europe Center dopo i primi cento giorno al governo di Trump, quasi il 90 per cento degli ucraini non si fidava del presidente statunitense: nel novembre precedente, erano solo il 47 per cento.

Negli ucraini non è andata via la sensazione di sfasamento e confusione provocata dall’atteggiamento del repubblicano, una sfiducia che assomiglia a quella provata dagli alleati europei di Kiev, anche quando da Washington arrivano parole severe e linea dura contro il Cremlino: qualche settimana fa, a giugno, il Kiis (Kyiv International Institute of Sociology) ha rilevato di nuovo che il 72 per cento degli ucraini ritiene che la presidenza di Donald Trump sia dannosa per l’Ucraina.

Gli attacchi russi

Alla giravolta trumpiana hanno risposto intanto i russi con attacchi ripetuti. Due missili balistici Iskander e trentasette droni (non solo Shahed) hanno colpito l’Ucraina poche ore dopo il messaggio americano. Strage in una struttura penitenziaria colpita a Zaporizhzhia, dove sono morte diciassette persone e trentacinque sono rimaste ferite. A Kamianske missile contro un ospedale. A Kharkiv sono rimasti uccisi cinque civili.

Anche al fronte passi avanti. Tanti e sempre più veloci: alle calcagna delle truppe ucraine i russi procedono nel Lugansk sia a Zaporizhzhia che a Donetsk. A Mosca però si sono accorti che sembra interrotto il filo delle comunicazioni, registrano il «rallentamento» nel percorso di normalizzazione con Washington ma, ha detto il portavoce Peskov, assicurano il proprio «impegno a favore del processo di pace».

Il Cremlino «prende nota» dell’ultimatum di Trump, diventato bersaglio sui social dell’ex presidente Medvedev, la cui reprimenda è arrivata ben prima delle dichiarazioni ufficiali: il capo della Casa Bianca gioca «all’ultimatum game», «ma dovrebbe ricordare due cose: la Russia non è Israele e nemmeno l’Iran. Ogni nuovo ultimatum è una minaccia e un passo verso la guerra. Non tra Russia e Ucraina, ma con il suo stesso paese».

Estrema stanchezza

In un rinsaldato rapporto ritrovato, il presidente ucraino ha spalleggiato la scelta Usa invocando una risposta «dolorosa» contro la Russia, che si fermerà con le sanzioni. Anche Yermak, braccio destro di Zelensky, ha ringraziato Trump. Il Kiis ha valutato (sempre a giugno) la fiducia accordata al presidente dai suoi cittadini, per scoprire che era diminuita di 11 punti da maggio: il 65 per cento degli ucraini ne prova ancora.

Il governo ucraino ha appena affrontato le sue prime mini-Maidan per la modifica della legge contro la corruzione ed è stato preso in contro piede da proteste che hanno saputo moltiplicarsi nonostante la guerra, da un’indignazione che dimostra gli ucraini ancora vigili, anche nell’estrema stanchezza.

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