«La fine della guerra deve essere onesta». Domenica 10 agosto il presidente ucraino Volodymyr Zelensky lo ha ripetuto di nuovo. Ma la guerra, temono ormai molti ucraini (preoccupati sin dall’elezione di Trump alla Casa Bianca, ancor prima che il presidente parlasse di swapping, scambio di territori) rischia di terminare solo come la decideranno i due numeri uno di Mosca e Washington che si incontreranno in Alaska il prossimo 15 agosto.

Per Kiev domenica la videoconferenza dei rappresentanti dei paesi membri Ue, lunedì la riunione straordinaria dei ministri degli Esteri. Zelensky ha ringraziato presidenti e premier europei – Macron, Meloni, Merz, Tusk, Starmer, Stubb –, la presidente Ue von der Leyen che hanno fatto sapere a Trump che la tregua è precondizione per ogni decisione o concessione, non oggetto di scambio.

«Una soluzione diplomatica deve proteggere gli interessi vitali di sicurezza dell’Ucraina e dell’Europa» dice la dichiarazione congiunta di Regno Unito, Francia, Italia, Germania, Polonia, Finlandia e Ue. Il messaggio è semplice e sempre lo stesso: il percorso verso la pace in Ucraina non può essere deciso senza l’Ucraina, i confini non si cambiano con la forza. Kiev fa sapere che appoggia appieno, ma purtroppo le parole contano poco se non pronunciate nelle stanze giuste e in quella che verrà designata per l’incontro in Alaska è molto probabile che Zelensky, come l’Ue, non ci sarà. Comunque, non durante e non prima dell’incontro Trump-Putin, che forse troveranno un accordo di pace. O forse solo un accordo.

La missione di Putin

La vera missione di Putin durante il summit di Ferragosto sarà convincere Trump a scaricare ucraini ed europei, fardello economico e geopolitico i primi, avversari commerciali i secondi. Quello che Putin offre per i negoziati è ciò che in Alaska si trova in abbondanza: gelo. Congelare le linee di fronte e ridimensionare le mire di conquista per le regioni di Odessa e Kharkiv.

Washington non ha fatto inversione dall’organizzazione del summit anche se adesso è quasi certo che Mosca non ha offerto compromessi territoriali e tutto si regge su un flebile errore di traduzione: Putin non ha mai promesso a Witkoff che si sarebbe ritirato dalle aree di Zaporizhzhia e Kherson, una lingua di terra che può fungere da ponte verso la Crimea. L’offerta è questa: cessate il fuoco, ma oltre al silenzio delle armi al fronte, niente. Gelo, appunto.

E se c’è un indagine in corso sul fraintendimento dell’inviato speciale Usa al Cremlino, è carsica. Un ex funzionario russo, in anonimo, ha chiarito la strategia di Mosca al Washington Post: «Politicamente è più facile continuare la guerra fino al collasso definitivo dell’Ucraina che fare la pace», con una tregua invece si potranno tenere le elezioni in Ucraina.

Con qualche ora, se non giorni interi di ritardo, si sono accorti tutti, anche negli Stati Uniti, di cosa sia l’Alaska per i nazionalisti russi: un territorio che, come l’Ucraina, prima apparteneva all’impero russo e dovrebbe tornare (secondo i più radicali) all’interno del perimetro dei loro confini federali. Il simbolismo del luogo scelto per l’incontro tra presidenti è potente: lo zar Alessandro II ha venduto l’Alaska agli americani – all’epoca, nel 1867, le potenze nemiche erano in Europa – e ha perso la guerra in Crimea, la penisola che Putin ha annesso nel 2014. A Mosca si esulta già: lo fanno i patrioti perché il presidente russo – che non ha fatto passi indietro durante i colloqui – torna in America, ma non in un’America a caso: in quel pezzo nato come “America russa”.

Kirill Dmitriev, finora uomo ponte tra Trump e Putin, scrive che l’incontro fa riecheggiare tra Mosca e Washington legami storici, artici. Applausi per Putin dai blogger militari, corrispondenti di guerra e oligarchi russi: «L’incontro in Alaska ha tutte le possibilità di diventare storico. Questo, ovviamente, se l’Occidente non tenterà di mettere in atto un altro piano». Una visione collettiva condivisa che Dmitry Medvedev, l’ex presidente oggi vice del Consiglio di Sicurezza, esprime più violentemente degli altri: sono gli «euroimbecilli» che ostacolano i tentativi di risoluzione del conflitto a favore del «regime agonizzante di Bandera in preda al panico». Per Maria Zakharova, portavoce del ministero degli Esteri, «le relazioni tra la Bankova (la strada di Kiev dove è sito il palazzo governativo, ndr) e la burocrazia di Bruxelles assomigliano alla necrofilia» e al nazismo.

Le parole di Vance

L’offensiva sul campo non si placa: pioggia di droni russi su Kharkiv, ma anche di velivoli ucraini nella Federazione, dove la Difesa riferisce di averne abbattuti più di 120. L’unico che può riuscire a silenziare le armi, «arrivare a un risultato» è il «peacekeeper» Trump secondo Matthew Whitaker, ambasciatore Usa alla Nato, ma non mancano critici del presidente in patria: se il piano prevede donare il Donbass a Mosca, è bene ricordare che le riserve di metalli rari al centro dell’accordo siglato con gli ucraini si trovano proprio in quella regione.

Comunque né l’Ucraina, né la Russia saranno felici dell’accordo, ha detto il vicepresidente Vance, che domenica ha parlato alla Fox: un bilaterale tra il leader ucraino e quello russo «non sarebbe produttivo». Poi ha aperto uno scorcio sul summit che verrà: «Credo che gli americani siano stanchi di continuare a inviare i soldi delle loro tasse a questo conflitto», ma «se però gli europei vogliono farsi avanti e acquistare effettivamente le armi dai produttori americani per noi va bene».

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