Il primo appuntamento ufficiale delle primarie repubblicane rischia anche di essere l’ultimo. Non solo perché l’appuntamento elettorale dell’Iowa dello scorso 15 gennaio era un caucus, ovvero una consultazione fatta a voto palese, mentre nel piccolo stato del New England si vota in maniera più tradizionale, mettendo la propria scheda nell’urna, senza che nessuno tenti di convincere l’elettore in arrivo.

Una delle ragioni per cui il New Hampshire, dove gli elettori più conservatori voteranno il 23 gennaio, quest’anno è così decisivo è perché forse è l’ultima chance della principale avversaria di Donald Trump, l’ex ambasciatrice presso le Nazioni unite Nikki Haley.

Ci sono una serie di ragioni per cui il piccolo stato può dare un sospiro di sollievo alla candidatura in difficoltà di Haley, ma prima di affrontare le varie questioni bisogna fare una premessa. Non era mai accaduto che un candidato che non fosse un presidente in carica per un secondo mandato stravincesse la competizione in Iowa. Nell’ultima competizione aperta per i repubblicani, nel 2016, proprio Trump era stato sconfitto dal senatore del Texas Ted Cruz di misura, lasciando tutto aperto per diversi mesi.

Anche per questo il risultato del Granite State appare decisivo. Haley in teoria ha diverse frecce al proprio arco, a cominciare dal sostegno del governatore Chris Sununu, repubblicano moderato che per mesi ha flirtato con l’idea di una corsa personale e figlio dell’ex governatore John, già capo di gabinetto di Bush sr. In altre epoche già l’appoggio di una dinastia politica statale sarebbe stato più che sufficiente in uno stato da un milione e quattrocentomila abitanti, dove gli iscritti repubblicani, secondo i dati diffusi dalla segreteria di stato locale, sono soltanto 267mila.

Il ruolo degli indipendenti

C’è un altro asset su cui contare ed è la particolare struttura delle primarie dello stato, che sono aperte anche gli elettori registrati come indipendenti. Con loro Haley è molto forte: secondo un sondaggio effettuato dal Saint Anselm College lo scorso 16 gennaio, Haley vince tra questi probabili elettori con il 52 per cento contro il 37 per cento che invece dichiara di sostenere l’ex presidente. L’ex ambasciatrice però perde largamente nel campo dei repubblicani militanti: lì il tycoon vince con il 65 per cento contro il 25 per cento di Haley.
Un divario troppo grande da colmare con i moderati. Categoria, questa su cui Haley è già forte: i dati degli exit poll raccolti dalla Cnn in Iowa testimoniano che il 63 per cento di loro l’ha scelta, mentre tra chi chi si definisce conservatore, invece, l’ex ambasciatrice ha raccolto soltanto il 14 per cento. E in New Hampshire, tra i repubblicani, i centristi sono soltanto il 30 per cento nonostante la moderazione dell’unico eletto a livello statale, il governatore Sununu.

L’unica chance di Haley, dunque, è di prendere alcuni voti del campo più radicale. I dati della Suffolk University ci dicono che registra solo un 18 per cento. Forse troppo poco. 

Lo spettro del sud

C’è un ultimo fattore da considerare ed è quello delle radici “sudiste” dell’ex ambasciatrice che è stata anche governatrice del South Carolina dal 2011 al 2017. Non uno stato qualsiasi, ma storicamente la culla del movimento secessionista promosso dai piantatori schiavisti che nel 1861 portò al distacco degli stati del sud dall’Unione e alla conseguente guerra civile.

Conflitto che nonostante sia un evento remoto continua a essere citato nel dibattito politico: durante un evento uno spettatore ha chiesto ad Haley quale fosse, secondo lei, la causa principale della guerra civile.

A cui non è stata data la risposta più ovvia, ovvero la difesa della schiavitù da parte di chi ne traeva profitto economico, ma una vaga “difesa dei diritti e della libertà”, senza dire nulla di più preciso. Un’affermazione che di certo non l’ha aiutata con l’elettorato più di centro che sposa la lettura storica prevalente sul conflitto, ovverosia che la schiavitù è stata il principale motore della guerra e che a guidare l’Unione in guerra, paradossalmente, era stato proprio il primo presidente repubblicano Abraham Lincoln con lo scopo primario di salvare l’unità nazionale.

Insomma, è come se per un attimo si fossero ripresentate le questioni riguardanti la bandiera confederata su cui la stessa Haley aveva adottato un atteggiamento ambiguo durante la sua prima candidatura a governatrice del South Carolina, nel 2010, quando dichiarò ai microfoni dell’associazione neo-sudista Sons of Confederate Veterans che il vessillo, che all’epoca era ancora mantenuto sul Campidoglio statale di Charleston, «non era un simbolo razzista».

Poi nel 2015 era avvenuta una strage in una chiesa a maggioranza afroamericana del capoluogo statale ad opera di un suprematista bianco nostalgico dei tempi della guerra civile e all’improvviso cambiò posizione, promuovendone la rimozione, ricevendo anche i complimenti dell’allora presidente Obama.

Come mai dunque rianimare una problematica defunta dove peraltro aveva fatto una bella figura? Il problema riguarda proprio la primaria del South Carolina del prossimo 24 febbraio, dove Haley si gioca molto, anche se c’è un problema forse insormontabile: la popolarità di Trump lì è massiccia, per quanto anche Haley goda ancora di grande consenso.  Lo spiega molto bene la deputata Nancy Mace, anche lei repubblicana: «Il South Carolina stima Haley, ma ama Trump».

Gli attacchi di Trump

Nonostante questo, il tycoon non ha lesinato attacchi alla sua avversaria, chiamandola guerrafondaia e paragonandola a Hillary Clinton, diffondendo fotomontaggi che fondevano le due figure. Non solo, ha rispolverato uno dei suoi argomenti preferiti contro Barack Obama, ovvero il dubbio che Haley sia realmente cittadina americana, che non sia nata sul suolo statunitense. Quesito tendenzioso che allude peraltro a una delle sue potenziali riforme di un secondo mandato di Trump, quello che toglierebbe il diritto di cittadinanza per i figli di migranti non cittadini. Questo però ci porta troppo lontano.

Quello che conta è che Trump e i suoi collaboratori non hanno preso sottogamba la sfida di Haley, non lasciando nulla d’intentato. Così come non ha lasciato niente al caso Joe Biden, che ha spostato la prima competizione elettorale in South Carolina il prossimo 3 febbraio. Una decisione che ha molto irritato la struttura locale dei dem, che ha comunque deciso di organizzare il voto, anche senza il consenso del comitato nazionale del partito e per questo non ci saranno delegati in palio.

Però l’impopolarità dell’inquilino della Casa Bianca non consente che il semisconosciuto deputato del Minnesota Dean Phillips, unico concorrente del presidente che non sia un candidato di pura testimonianza, vinca anche solo una competizione elettorale. Così i sostenitori di Biden hanno promosso una campagna per farlo votare scrivendo il suo nome sulla scheda, per dimostrare la sua forza presso i militanti dem.

Un mezzo che però mostra quanto alta sia la preoccupazione del campo progressista per la scarsa spendibilità della figura del presidente, tanto da dover ricorrere a mezzucci come quello sopraccitato. Quindi se i repubblicani statali cercano di contenere Trump, i dem cercano di rendere Biden più visibile. Due approcci radicalmente diversi che testimoniano la direzione dove soffia il vento in questo momento politico.

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