Xi Jinping non parteciperà di persona né al vertice del G20 di Roma (30-31 ottobre) né alla conferenza delle Nazioni unite sul clima COP26 di Glasgow (9-20 novembre). Il presidente cinese globetrotter, quello che ha viaggiato quanto nessuno dei suoi predecessori (69 paesi visitati da quando ha assunto il potere, nel novembre 2012), è diventato il leader del G20 che da più tempo non varca i patri confini: sono passati 637 giorni dalla sua ultima apparizione all’estero, nel confinante Myanmar (17-19 gennaio 2020).

Una stasi forzata, per tenere al riparo dalla pandemia il “cuore della leadership” (héxīn lǐngdăo, il titolo, riservato già a Mao e Deng, che il Partito comunista ha attribuito anche a Xi) e allinearne la condotta a quella del popolo, tuttora sottoposto a limitazioni di movimento all’interno e all’esterno dei confini nazionali. Tuttavia se gli spostamenti di Xi al di fuori di Zhongnanhai - la residenza dei leader del Pcc accanto alla Città proibita - si sono ridotti a qualche sortita nelle province cinesi è anche perché la sua attenzione è concentrata su due emergenze nazionali, precipitate alla vigilia di due cruciali eventi politici: la VI sessione plenaria del XIX Comitato centrale del mese prossimo, e il Congresso nazionale che, tra un anno, dovrebbe concedergli un inedito terzo mandato per governare il paese più popoloso del mondo con poteri mai così ampi dai tempi di Mao.

Le continue interruzioni nella fornitura di elettricità alle fabbriche e lo sgretolamento del colosso immobiliare Evergrande - assieme alla ripresa delle esportazioni dai paesi concorrenti, rimasti fermi nei mesi scorsi - ridimensionerà la crescita post-pandemica della Cina a partire dal terzo trimestre, i cui dati sono attesi per domani. Giovedì scorso il premier, Li Keqiang, ha scelto l’apertura della fiera di Guangzhou per lanciare un messaggio d’ottimismo: la Cina riuscirà a centrare l’obiettivo di crescita del Pil che si è data per il 2021, superiore al 6 per cento.

Eppure, con l’inverno alle porte, nelle ultime settimane milioni di aziende (anche straniere) e famiglie in oltre la metà delle province cinesi si sono viste staccare l’elettricità ripetutamente. I razionamenti - legati, come in altre parti del mondo, all’impennata della domanda di energia - hanno colpito particolarmente l’industria pesante nel nord-est e, a sud, la locomotiva manifatturiera del Guangdong.

Il governo mette le mani avanti: i blackout si protrarranno al 2022. A incidere sono principalmente due fattori: il prezzo del carbone che, non essendo calmierato, è schizzato alle stelle per l’eccesso di domanda; mentre il costo dell’elettricità (generata per il 70 per cento da centrali a carbone), regolamentato, disincentiva i fornitori a produrne di più quando aumentano i prezzi delle materie prime.

Per cercare di superare i razionamenti martedì scorso la Commissione nazionale per lo sviluppo e le riforme (Ndrc) ha annunciato che i prezzi della fornitura di elettricità verranno liberalizzati. Il meccanismo che dà ai governi locali il potere d’imporne la vendita alle aziende a prezzi inferiori a quelli fissati da Pechino dalla Ndrc sarà abolito. Il costo dell’elettricità per la produzione industriale (e per gli utenti domestici) potrà aumentare fino al 20 per cento, ma si spera che la riforma possa indurre investimenti nell’efficientamento, per risolvere l’annoso problema dei colossali sprechi energetici degli impianti cinesi.

Nei mesi gennaio-agosto 2021 il consumo di elettricità in Cina è aumentato dell’13,8 per cento, la produzione di carbone soltanto del 4,4 per cento. Spinto dal balzo del prezzo del combustibile fossile (+74,9 per cento rispetto all’anno precedente a settembre), il mese scorso l’indice dei prezzi alla produzione (Ppi) ha segnato un clamoroso +10,7 per cento (mai così in alto dal 1996).

A tutto carbone

La crisi ha messo drammaticamente in luce la contraddizione tra l’impegno di Pechino (picco nel 2030, neutralità carbonica nel 2060) a ridurre le emissioni di gas serra e la voracità energetica della seconda economia del pianeta, tanto che molti economisti hanno colto l’occasione per ribadire che - almeno per i prossimi anni - per l’industria non esisterebbero alternative ai combustibili fossili.

Ad agosto, una nota della Ndrc aveva evidenziato che due terzi delle province cinesi avevano mancato i loro obiettivi di riduzione di CO2. Secondo il premier Li, i tentativi dei governi locali di recuperare terreno nelle ultime settimane hanno contribuito al caos. «Il picco e la neutralità carbonica richiedono un lungo e duro lavoro - ha dichiarato il numero due del Pcc -. Lo sviluppo rimane la soluzione per tutti i nostri problemi, e la carenza dell’offerta in questo momento rappresenta la maggiore insicurezza energetica». Nel corso di una riunione del governo con la Ndrc e l’Agenzia per l’energia, il premier ha dettato la nuova linea: non bisogna «correre troppo» con la riduzione delle emissioni, mentre va incentivata la produzione di metano e l’esplorazione di petrolio e gas. Nei prossimi mesi si andrà avanti comunque a tutto carbone: presentato come rimedio “temporaneo”, le province cinesi ne stanno aumentando massicciamente l’importazione da Russia, Indonesia, Canada, Filippine, Sudafrica.

Altre immobiliari in bilico

Per Evergrande, che ha accumulato 300 miliardi di dollari di debiti (il 2 per cento del Pil cinese), si avvicina il momento della verità. La maggiore società immobiliare del Paese per la terza volta consecutiva in poche settimane non ha corrisposto gli interessi sui suoi bond offshore, questa volta per 148 milioni di dollari.

Mentre gli investitori internazionali si stanno rivolgendo a prestigiosi studi legali per far valere i loro diritti, il governo centrale cerca di evitare in ogni modo di impegnarsi direttamente nel salvataggio di una compagnia che ha finanziato la propria espansione con truffe e debiti su debiti. La leadership ha la necessità di mandare il messaggio opposto: vanno rispettare le nuove “linee rosse” sul credito.

Le banche stanno già chiudendo i rubinetti a Evergrande: Moody’s ha rivelato che alla fine del giugno scorso la compagnia immobiliare aveva ricevuto prestiti per 61 miliardi di dollari, la metà rispetto alla fine del 2019. Nonostante ciò - secondo un rapporto appena pubblicato dalla società di consulenza statunitense - la crisi di Evergrande avrà ripercussioni pesanti sull’intero sistema immobiliare, nel quale è concentrato il 7,4 per cento dei prestiti delle banche cinesi.

Negli ultimi giorni si sono succeduti piccoli casi Evergrande. Fantasia, un gruppo immobiliare di Shenzhen, non è riuscita a pagare i suoi debiti il 4 ottobre. Modern Land, un developer pechinese, ha chiesto agli investitori di posticipare il rimborso, questo mese, di bond per 250 milioni di dollari. Anche la shanghaiese Sinic Holding Group la prossima settimana non riuscirà a rimborsare titoli per 250 milioni di dollari.

Zou Lan, a capo della divisione mercati finanziari della Banca centrale (Pboc), venerdì scorso ha accusato «la dirigenza incapace degli ultimi anni, che non ha guidato la compagnia assecondando i cambiamenti del mercato, ma in maniera cieca».

Ma per la Pboc la crisi di Evergrande è gestibile, perché i suoi debiti rappresentano meno di un terzo del suo business e perché il coinvolgimento delle banche (una decine di istituti di credito di medie dimensioni, nda) è limitato, il che renderebbe improbabile lo scoppio di una crisi finanziaria.

Ad ogni modo le ripercussioni sul settore immobiliare, nel quale sono concentrati i risparmi di masse di cinesi - come l’inflazione attesa al rialzo per la crisi dell’elettricità -, rischiano di deprimere i consumi nei prossimi mesi. Circa il 30 per cento del Pil cinese (contro il 22 per cento negli Stati uniti) è generato dal settore immobiliare. Il mese scorso, le cento maggiori compagnie immobiliari cinesi hanno registrato complessivamente un calo delle vendite del 36 per cento rispetto allo stesso periodo del 2020.

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