Quando Julien Benda ha pubblicato La trahison des clercs il ricordo dell’Affare Dreyfus era ancora molto vivo nell’opinione pubblica francese.

Per la generazione cui apparteneva lo scrittore (nato nel 1867), la battaglia in difesa dell’ufficiale ebreo ingiustamente accusato fu un’esperienza memorabile.

Benda prese posizione per Dreyfus a pochi giorni dalla pubblicazione dell’articolo di Zola, e in seguito intervenne diverse volte nella polemica, con articoli apparsi nella Revue Blanche e successivamente raccolti in volume.

Benda non era un accademico, ma la disponibilità di mezzi sufficienti per vivere in modo autonomo gli consentiva di coltivare i suoi numerosi interessi – letterari, scientifici e filosofi – pubblicando diversi lavori.

La radicalizzazione degli intellettuali 

Benda comincia a lavorare al testo sugli intellettuali nel 1924, ma il libro vede finalmente la luce qualche anno più tardi, nel 1927. Quando il volume viene pubblicato, l’Europa sta facendo i conti con la pesante eredità della Prima guerra mondiale, e in particolare con l’instabilità politica che essa ha portato con sé: la rivoluzione in Russia, la fine degli imperi centrali, l’ascesa di movimenti nazionalisti e sciovinisti in diversi paesi; la nascita del fascismo e i disordini che un po’ ovunque sembrano annunciare rivolgimenti politici drammatici.

In questo clima, segnato da una profonda crisi delle certezze morali e politiche della Belle Époque, Benda viene stimolato a riflettere sulla scelta di intellettuali, come Maurras e Barrès, che si erano schierati dalla parte dell’accusa ai tempi dell’Affare Dreyfus.

A quasi trent’anni di distanza, molti dei protagonisti di quelle campagne, segnate da un feroce pregiudizio antiebraico, hanno un ruolo di spicco nelle formazioni politiche della destra reazionaria. Benda si convince che la radicalizzazione degli intellettuali francesi rientri in un fenomeno più ampio, che riguarda l’intero continente, e non si limita soltanto agli esponenti della destra.

La recensione di Croce

Alla sua pubblicazione, La trahison des clercs suscita un dibattito vivace, che ben presto supera i confini della Francia. Tra le prime reazioni di un certo rilievo c’è quella di Benedetto Croce, che lo recensisce nel 1927.

Difficile immaginare un lettore più adatto a cogliere le diverse dimensioni della polemica di Benda. Croce è un filosofo e un intellettuale, ha un ruolo centrale nella cultura e nella vita pubblica del proprio Paese, tra i più influenti in Europa, ed è uno dei protagonisti della svolta di fine secolo di cui parla Stuart Hughes.

La recensione di Croce è interessante, inoltre, perché il filosofo da tempo è impegnato anche sul piano politico. Ricordiamo che il Manifesto degli intellettuali antifascisti è di due anni prima. Per quanto l’espressione di Benda “è sceso in piazza” mal si adatti al distacco patrizio con cui Croce affronta i propri impegni pubblici, che includono anche un seggio al Senato del Regno, e un periodo come ministro della Pubblica istruzione, non c’è dubbio che egli potrebbe sentirsi chiamato in causa dall’accusa di tradimento mossa da Benda ai chierici contemporanei.

Croce si è impegnato, e non lo ha fatto in ossequio a un ideale platonico, ma a una concezione della libertà di cui rivendica la concretezza perché parte della Storia.

La figura sociale dell’intellettuale

Non c’è dubbio che La trahison sopravviva al suo autore. Anche la versione ampliata viene tradotta nelle principali lingue europee – in Italia nel 1975, da Einaudi, con una lunga introduzione di Sandra Teroni Menzella, che si legge ancora con profitto – e rimane un punto di riferimento per chi vuole studiare il dibattito sull’impegno degli intellettuali nel Novecento.

Tuttavia, col passare del tempo, il “tradimento dei chierici” diventa più una formula retorica da usare nel contesto della Guerra fredda che un insieme di contenuti che si associano alla riflessione di un autore. Menzionato più che letto, Benda viene tacitamente messo da parte.

La testimonianza forse più significativa di questa perdita di rilevanza del pensiero di Benda si può trovare nel libro di Raymond Aron L’opium des intellectuels del 1955.

Per il lettore odierno il libro di Aron è ancora pieno di spunti di riflessione. In primo luogo perché pone il problema della figura sociale dell’intellettuale, che non può più essere identificato con l’umanista o con l’uomo di scienza che si interessa solo dei profili teoretici della propria disciplina.

La ricezione acritica della classica distinzione tra lavoro intellettuale e lavoro manuale deve essere messa alla prova dell’analisi sociale, facendo venire alla luce tutti i profili di intelligenza che emergono anche nelle tecniche.

Quella modernità, che in Benda appariva soprattutto un processo di degenerazione, di oblio dei valori spirituali, deve invece essere studiata e compresa. L’impegno, lungi dall’essere un tradimento, è un destino cui è difficile sottrarsi nella misura in cui si esercita la ragione.

Osservatore neutrale?

Se è appropriato che l’intellettuale cerchi di mantenere un certo distacco, in quanto è indispensabile per avere la distanza critica che consente di descrivere in modo adeguato il mondo, esso non è quello di un osservatore neutrale. Un atteggiamento che Aron riassume nel 1981, verso la fine della sua vita, rivendicando la propria esperienza di intellettuale come di uno “spectateur engagé”.

Gli intellettuali, quindi, non possono sottrarsi del tutto al «fascino di Siracusa», per riprendere la felice espressione usata da Mark Lilla. Non possiamo pretendere di aver trovato una risposta soddisfacente alla domanda “che cos’è la giustizia?” senza che questo ci impegni in qualche modo nella realizzazione del modello normativo.

Tuttavia oggi lo “spectateur engagé” deve porsi diversi problemi, che non erano ignoti, ma forse si presentavano in modo meno drammatico quando Aron formulava le proprie osservazioni sul compito degli intellettuali.

Esaminarli richiederebbe uno spazio più ampio di quello che ho a disposizione, quindi mi limito a ricordane due, particolarmente importanti: le condizioni sociali dell’indipendenza dell’intellettuale, che si sono erose notevolmente rispetto agli ultimi anni del Novecento, e il modo in cui egli può adattarsi alla società dell’informazione senza perdere il rischio di diventare soltanto parte dello spettacolo.

L’eredità di Benda

In conclusione, il bilancio più lucido dell’eredità di Benda e dei suoi limiti per chi voglia riflettere oggi sugli intellettuali mi pare sia quello proposto da Michael Walzer: «Non esiste un reame dell’intellettualità assoluta, quantomeno non uno abitato da esseri umani. Possiamo fingere che il monastero o l’accademia siano un luogo del genere, ma allora è poco probabile che gli uomini e le donne che vi risiedono, esaltati dalla finzione, imitino la modestia politica di Benda. Egli avrebbe dovuto essere messo in guardia dagli argomenti di Platone quando parla a nome dei suoi filosofi e dalle ambizioni politiche dei monaci medievali. Filosofi e chierici in contatto con l’eternità possono fin troppo facilmente cadere in tentazione. Lo stesso può accadere agli intellettuali che ritengono di conoscere i fini della storia. Questi esseri umani sono pericolosi. Ma non c’è nessuna ragione di accettare la finzione. La conoscenza della verità è sempre incompleta, e la passione per la verità sempre impura. La verità in astratto può essere universale e immutabile, come pensava Benda, ma ogni incarnazione che ha nella dottrina filosofica o nella visione poetica è parziale e ideologica, una mescolanza locale di acutezza di giudizio e di miopia. Ciascuna di queste incarnazioni viene messa in discussione, e in ogni disputa non è in gioco soltanto la verità, ma anche la reputazione, il prestigio, e la gloria. Ciò non vuol dire giocare a fare il cinico, o abbracciare una dottrina anti-intellettualista».


La versione integrale di questo articolo è pubblica sul nuovo numero della rivista il Mulino dal titolo La vocazione intellettuale in uscita il 17 marzo.

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