Potremmo chiamarla la “guerra delle newsletter”. Nei giorni scorsi Facebook ha lanciato Bulletin, qualche mese prima Twitter aveva acquistato Revue: l’obiettivo comune è quello di diventare il nuovo punto di riferimento per il mercato delle newsletter. Avendo come esempio Substack, forse una delle piattaforme tecnologiche di cui si è scritto di più nei mesi della pandemia, se si escludono Zoom e TikTok.

L’idea è semplice quanto vincente: Substack fornisce a tutti gli strumenti per costruirsi la propria newsletter, i lettori possono abbonarsi per ricevere i contenuti nella propria casella email. Alcuni articoli vengono distribuiti gratuitamente, altri sono accessibili solo a chi ha scelto di abbonarsi a pagamento.

Substack trattiene il 10 per cento dei guadagni, mentre il resto va agli autori. Chi legge può scegliere il proprio palinsesto informativo, chi scrive può coltivarsi il proprio pubblico, con l’ambizione di guadagnarci qualcosa. Tutto questo è stato descritto come il paradiso dei freelance, senza più editori e limiti, senza più il bisogno di trovare una redazione a cui vendere i propri articoli, a prezzi non sempre equi. Scelgono i lettori, i lettori soltanto.

Diventare un editore

In effetti, soprattutto negli Stati Uniti, ci sono stati giornalisti e divulgatori che sono riusciti a reinventare il loro lavoro, senza altri mediatori. In alcuni casi anche con uno strano cortocircuito.

Welcome to hell world, la newsletter del giornalista Luke O’Neil, è diventata così popolare che un editore ne ha poi acquistato i diritti per trasformarla in un libro. E non è l’unico caso. È il segno di un ribaltamento dei ruoli, con gli editori costretti a inseguire i freelance e non più il contrario?

Qualche mese fa si è poi scoperto che Substack ha pagato segretamente, e continua a pagare, di tasca propria, alcuni degli autori per attirarli sulla propria piattaforma, con compensi dai mille ai 100mila dollari. Sono un gruppo segreto, ora identificato come “Substack pro”: tutti sanno che esiste, ma nessuno sa chi ne fa parte (anche se c’è chi ha fatto “coming out”, come l’editorialista politico-economico Matthew Yglesias). Substack paga questi autori per il primo anno, tenendosi in cambio l’85 per cento dei ricavi sui loro abbonamenti.

«Noi ci assumiamo gran parte del rischio al posto loro. In cambio il lavoro che fanno contribuisce alla qualità dei contenuti su Substack», spiega Hamish McKenzie, uno dei fondatori della piattaforma. In sostanza, Substack si è trasformato in un editore.

Un potere senza bilanciamento

E c’è chi pensa che sia un problema. La giornalista scientifica Annalee Newitz ha scritto su New Scientist il motivo per cui ha lasciato Substack: «Il problema non è che ci siano degli scrittori che sono pagati e neppure quanto sono pagati. Il problema è che Substack dichiara di essere una piattaforma neutrale, ma allo stesso tempo sceglie chi finanziare. In questo modo ha gli stessi privilegi di un media tradizionale, perché può promuovere e dare più visibilità a certi punti di vista. Ma non ha le stesse responsabilità di un editore o di una redazione». Se non altro, c’è un problema di trasparenza.

Anche se non tutti sono d’accordo con la posizione di Newitz, questa discussione rischia di amplificarsi ora che anche Facebook ha deciso di aprire la propria piattaforma di newsletter.

Al momento Bulletin è accessibile solo ad alcuni collaboratori che hanno il compito di fare da promoter. Poi sarà aperta a tutti, con le stesse premesse: ogni autore potrà offrire i propri contenuti gratuitamente o a pagamento. Facebook, nella sua tipica capacità mimetica, non si proporrà come un editore, ma come un fornitore di servizi. Aumentando il proprio potere di influenza, senza doverne rispondere.

Rinascimento delle newsletter

C’è un vecchio adagio che si ripete spesso nelle redazioni, forse anche come formula auto-consolatoria: «Se anche dovessero morire i giornali, il giornalismo non morirà mai».

La “guerra delle newsletter” fra Twitter (che ha acquistato una società specializzata) e Facebook, in effetti, testimonia come ci sia una forte richiesta di prodotti di questo tipo. C’è un pubblico che cerca contenuti informativi da leggere, anche se chiede di poterlo fare nelle proprie caselle email e non su un foglio di carta.

I media tradizionali lo hanno capito ormai da tempo e quasi tutti i giornali (Domani compreso) offrono un proprio panorama di newsletter. L’interesse dei lettori sembra fortemente in crescita, come testimonia anche il Digital news report elaborato dal Reuters Institute e dall’università di Oxford. Gli esperti di tecnologia parlano di “rinascimento delle newsletter”, a testimonianza del ritorno di un interesse già molto diffuso agli albori del web 2.0.

Ma sarebbe sbagliato immaginare che tutto questo nasca per forza con lo sviluppo della tecnologia. Rachael Scarborough King, ricercatrice nel dipartimento d’Inglese dell’Università della California, ha cercato le origini delle newsletter, viaggiando in un passato più lontano di quello che ci aspetteremmo. Fino a teorizzare che siano in realtà un mezzo molto precedente rispetto all’invenzione dei giornali e non per forza legato alla stampa.

«Esistono nella storia le newsletter manoscritte e non dobbiamo immaginarle come semplici lettere che contengono alcune informazioni», spiega la ricercatrice in un articolo pubblicato dall’Università della Pennsylvania. «Nella seconda metà del Diciassettesimo secolo, le newsletter erano scritte a mano. Erano prodotte in maniera professionale e distribuite commercialmente, in centinaia di copie, tutte con lo stesso formato». Lo scopo era di fornire una sorta di rassegna delle notizie principali, sintetizzate in pochi fogli che venivano inviati a particolari clienti, di solito accomunati per interessi o professione. In altre parole: non ci siamo inventati nulla.

Come spesso accade nella tecnologia, non si tratta di creare qualcosa di completamente nuovo, ma di adattare quello che già esiste, o è esistito, alle caratteristiche del mercato e della contemporaneità. Facebook ha già dimostrato in passato di riuscirci molto bene. Resta da capire se vogliamo davvero che sia Mark Zuckerberg a controllare un altro aspetto della nostra vita digitale.

 

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