Quando qualche anno fa abbiamo scoperto l’acqua su Marte, mentre il mondo si esaltava all’idea di una possibile scoperta di vita fossile, il filosofo svedese Nick Bostrom si agitava nel suo ufficio di Oxford. Secondo lui, tracce di vita su Marte sarebbero state una pessima notizia per l’umanità: peggio ancora, tracce di vita complessa (qualche trilobite, qualche scheletro simile ad un mammifero) sarebbero diventati annunci di apocalisse.

Bostrom si occupa professionalmente di “rischio esistenziale” dell’umanità: studia cioè tutte le possibili cause che possano portare a un collasso della società per come la conosciamo. Molte di queste cause sono naturali, esterne all’uomo, e fuori dal suo controllo: l’impatto di un asteroide, un’eruzione vulcanica gigantesca, l’avvento di un terremoto fuori da ogni scala. Altre sono invece “interne”, causate da noi: la nascita di una superintelligenza artificiale ostile agli umani, un esperimento sbagliato con le nanotecnologie, un conflitto nucleare, un virus uscito da un laboratorio che causa una pandemia mondiale...

Alcuni di questi scenari sembrano uscire da un brutto film di fantascienza anni novanta, altri da un paio d’anni sono diventati verosimili in maniera inquietante. Perché, secondo Bostrom, la scoperta di vita fossile su Marte sarebbe stata una pessima notizia? Banalmente perché sarebbe un indizio molto forte che la vita intelligente sia qualcosa di probabile nell’universo.

Ma se è davvero così, se la vita aliena è qualcosa di così comune, la domanda sorge spontanea: Perché non vediamo tracce di vita aliena? Dove sono tutti quanti?

Il paradosso di Fermi

Questo problema astro-filosofico è noto come “paradosso di Fermi”, dal nome del fisico italiano che lo formulò per la prima volta un secolo fa, quando lavorava alla bomba atomica nei laboratori di Los Alamos.

Il ragionamento è piuttosto semplice: dato l’enorme numero di stelle nell’universo osservabile, e date le nostre conoscenze attuali, è ragionevole pensare che la vita possa essersi sviluppata in un grande numero di pianeti, in un grande numero di galassie, e che moltissime civiltà extraterrestri siano evolute durante la vita dell’universo, che per come la conosciamo si misura in miliardi di anni. Fino ad ora, decenni di ricerca extraterrestre non hanno portato alcun risultato: siamo noi a non trovarle, sono loro a non volersi fare vedere, o civiltà evolute come e più di noi sono in realtà rarissime?

L’assunto di base è che ogni civiltà abbastanza evoluta tecnologicamente sia in grado e desideri esplorare l’universo, alla ricerca di energia e risorse.

E se non ci sono civiltà che vagano per le galassie conquistando pianeti, si ipotizza, è dunque per colpa di un “grande filtro”, un avvenimento che in qualche modo preclude la nascita di civiltà di questo tipo.

Nel nostro caso, le possibilità sono due: il “grande filtro” l’abbiamo già passato. Oppure è ancora davanti a noi.

I più evoluti

Nella prima ipotesi – l’umanità ha già attraversato il grande filtro – allora davvero la vita intelligente potrebbe essere qualcosa di raro nell’universo. Siamo noi la prima civiltà che andrà in giro a esplorare la galassia.

In effetti, l’evoluzione biologica sulla terra era tutt’altro che una storia già scritta, poiché figlia di diverse condizioni molto improbabili: un pianeta capace di ospitare vita deve stare a una determinata distanza da una stella; non troppo vicino per bruciarsi, non troppo lontano per vivere in una eterna notte ghiacciata.

La natura ha dovuto sviluppare ingegnosi meccanismi di riproduzione come il Dna e l’Rna, evolversi da forme di vita semplici come i procarioti a celle più complesse come gli eucarioti; c’è stata la comparsa della riproduzione sessuale, che ha aumentato la variabilità genetica; la nostra specie, col pollice opponibile e la posizione eretta, ha sviluppato la capacità di produrre tecnologia manipolando oggetti, all’inizio in maniera rudimentale e via via in maniera più sofisticata. Nessuno di questi eventi era davvero scontato.

Se il “il grande filtro” è stato davvero prima di noi, è possibile che siamo la prima civiltà “evoluta” dell’universo, o una fra le pochissime. Altre civiltà, più o meno avanzate della nostra, potrebbero esistere a milioni di anni luce di distanza, irraggiungibili. Questa ipotesi, ovviamente, è lo scenario più felice e ottimista.

Il peggio deve venire

Più pessimista è ipotizzare che il peggio debba ancora venire, in un futuro prossimo o remoto.

Molte delle catastrofi candidate a essere “il grande filtro”, dicevamo, sono causate direttamente dall’uomo. Fra tutte, una mi preoccupa più degli altri: più dell’intelligenza artificiale malevola o della guerra nucleare.

È una catastrofe lenta, distribuita, silenziosa e inarrestabile, e la mia paura è che la stiamo già vedendo. È il cambiamento climatico, con tutte le sue innumerevoli conseguenze. È lo scenario in cui gli esseri umani rendono il pianeta inadatto alla propria sopravvivenza.

Se suona troppo familiare è perché lo vuole essere. Quest’estate si sono registrati quasi 50 gradi a Siracusa, ma anche in Canada. Non ci vuole molto a immaginare estati invivibili in gran parte della zona temperata, o siccità che durano mesi, aumentando il pericolo di incendi e rendendo l’acqua un bene scarso per centinaia di milioni di persone. L’essere umano è un corpo fragile: come reagirebbe la nostra civiltà a un clima così ostile?

Costruire civiltà

Da un punto di vista evoluzionistico, siamo poco più che scimmie con qualche centimetro cubo in più di corteccia cerebrale. Nei millenni, ci siamo evoluti in civiltà sempre più complesse, spinti da una fame insaziabile: abbiamo creato le città, l’arte, la musica, la letteratura, il turismo, una cultura gastronomica globale meravigliosa e inesauribile, una seconda civiltà digitale con le proprie regole e una propria fisica.

Incapaci per natura di accontentarci di una giornata perfettamente vuota – spinti dalla fame, dalla sete, dalla noia, dalla voglia di libertà, di esplorare, di conoscere – abbiamo sempre cercato qualcosa di più.

Quasi l’intero significato di quello che chiamiamo “civiltà” è stato ottenuto depredando un surplus di energia. Finché l’umanità ha dovuto basarsi solo sul sudore della propria fronte, c’è stato pochissimo spazio per la cultura, l’arte, la letteratura, la filosofia.

Per questo, per millenni, abbiamo soggiogato animali per arare i nostri campi, per fornire latte e carne, fino a che un paio di secoli fa abbiamo trovato nei carburanti fossili come gas e petrolio la leva perfetta per accelerare un progresso tecnologico, scientifico e culturale che non ha avuto precedenti nella storia dell’uomo.

Questa meravigliosa inquietudine – quella che ci rende diversi da ogni specie animale e vegetale che conosciamo – sarà quindi la stessa, tremenda forza che determinerà il nostro collasso? Siamo una specie che vuole troppo, destinata a collassare su sé stessa?

Limiti cognitivi

È difficile rispondere, ma sono anni che attivisti, psicologi, sociologi, scrittori, filosofi – preoccupati dalla crisi climatica e tentando di smuovere la coscienza individuale e collettiva – analizzano i “punti ciechi” della psicologia umana, gli stessi che non ci permettono di agire velocemente e con fermezza di fronte alla più grande minaccia che l’umanità abbia mai affrontato.

Recentemente, lo scrittore Fabio Deotto ha pubblicato L’altro mondo, libro che è, per metà, un reportage fra i luoghi che il cambiamento climatico ha già stravolto: le Maldive, Miami Beach, New Orleans, la Lapponia, Venezia. Deotto ci racconta del mare che si sta riprendendo, pezzo dopo pezzo, il terreno che gli umani avevano voluto strappargli e su cui avevano stabilito comunità e intere città. Osserva le spiagge che devono essere ricolmate, l’acqua salmastra che secca le coltivazioni, riemergendo da sotto il terreno. Sperimenta sulla propria pelle il sole caldo che lascia senza neve luoghi che fino a pochi anni fa ne erano ricoperti, come il paese di Babbo Natale. Distrugge immagini da cartolina che ritenevamo immutabili.

Ma è la seconda metà del libro di Deotto quella che davvero stupisce e ci dovrebbe inquietare: un secondo reportage attraverso tutti quei meccanismi mentali che ci impediscono di vedere o reagire a tutto questo. Una disamina delle fallacie logiche e dei nostri limiti cognitivi

Bias del controllo

Il cambiamento climatico è un ”oggetto” troppo grosso per essere compreso (il filosofo Timothy Morton, ricordava Francesco Guglieri su queste pagine pochi giorni fa, lo chiama “iperoggetto”), manca di tutte quelle qualità che l’evoluzione ci ha insegnato a vedere in un lampo, quelle qualità che ha sedimentato nel nostro istinto animale e ci ha permesso di sopravvivere come specie.

Non è una minaccia chiara e immediata. L’evoluzione che ha costruito il nostro istinto con risposte fulminee – combatti o fuggi – non ci ha preparato a minacce come uno stillicidio di eventi apparentemente separati nello spazio e nel tempo, come un mostro troppo grande per poterlo abbracciare in un’occhiata.

È una minaccia impersonale, lenta, distribuita. L’esatto contrario di qualcosa che siamo stati programmati per riconoscere: qualcosa che minaccia noi e il nostro corpo, qui ed ora, all’improvviso, come un animale che ci aggredisce.

Un amico al liceo non andava bene a scuola, ma non se ne preoccupava. Si crogiolava nella sua mediocrità, sapendo di non essere né il migliore né il peggiore: se bocciano me, bocciano mezza classe... Come nelle barzellette, ovviamente, a fine anno i prof bocciarono mezza classe, lui compreso.

Leggendo il libro ho sùbito ripensato a questa storia, un perfetto esempio del cosiddetto bias del controllo. Deotto ci racconta un esperimento di psicologia, in cui un volontario veniva messo in una stanza con degli attori, che lui ovviamente non sapeva essere tali. A un certo punto, gli sperimentatori facevano uscire del fumo da una grata: in metà degli esperimenti, gli attori nella stanza reagivano allarmati, e così facevano i volontari.

In altri casi, invece, gli attori facevano finta di niente: di conseguenza, anche i volontari, vedendo che tutti rimanevano calmi, ostentavano sicurezza.

Negare l’evidenza

L’idea alla base è che siamo una specie accomodante, conformista: ognuno di noi influenza ed è influenzata da chi ha di fianco. Se nessuno intorno a noi si preoccupa del cambiamento climatico, il nostro istinto naturale è quello di aggregarci alla massa, evitare il problema.

Al bias del controllo si aggiunge il bias di normalità, che ci fa sempre sottostimare le conseguenze di un evento catastrofico. E il bias di ottimismo, che ci induce a credere che un evento negativo abbia maggiori probabilità di colpire altri invece che noi.

E c’è anche quello che ci vuole «temporalmente pessimisti e spazialmente ottimisti: tendiamo cioè a credere che le cose peggioreranno in futuro, ma che che la situazione sia nettamente più sicura nel posto in cui ci troviamo». I nostri sono limiti cognitivi, a volte talmente diffusi da essere in tutto e per tutto una caratteristica umana, al netto della cultura: per questo, sono difficilissimi da riconoscere ed estirpare.

Una questione di cervello

Niccolò Porcelluzzi e Matteo de Giuli, nel loro recentissimo Medusa – anch’esso dedicato alla crisi climatica e al nostro modo umano troppo umano di affrontarla – aggiungono un altro tassello fondamentale: non è solo questioni di tare cognitive, o di mancanza pensiero logico. È che tutto ciò che vediamo viene filtrato dalle nostre identità culturali e politiche, dai nostri sistemi di credenze.

I gruppi politici si polarizzano attorno alle idee, e quindi – come accade per ogni cosa – anche qualcosa di così grosso e apparentemente indiscutibile come cambiamento climatico viene filtrato con queste lenti. Per alcuni dunque diventa una farsa, una manipolazione orchestrata dalle élite; alcune frange populiste vi leggono un modo di giustificare politiche troppo liberiste, mentre più a destra temono una dittatura socialista e globalista. Sono interpretazioni assolutamente inconciliabili, eppure il fenomeno è il medesimo.

Il problema principale, dunque, è che l’uomo non è un animale del tutto razionale, come la scienza sta tentando di dirci in tutti i modi da decenni: fra gli altri, nel 2002 lo psicologo ed economista israeliano Daniel Kahneman ha vinto il Nobel (assieme al collega Vernon Smith), per il suo lavoro di integrazione della psicologia cognitiva all’interno dell’economia e della finanza, spazzando via la vecchia idea di homo economicus, l’individuo sempre razionale e calcolatore che era il protagonista di tutta la scienza economica classica.

Come racconta nel suo capolavoro Pensieri lenti e veloci – che riassume una vita di ricerca – l’economia comportamentale è un modello di realtà molto più efficace e preciso, una nuova narrazione che ci racconta una umanità che fa scelte piene di errori, fallacie, salti logici, pregiudizi, che spesso danneggiano noi stessi e gli altri (non a caso, fu un altro grande economista a scrivere un trattatello sulla stupidità umana: Carlo Cipolla).

Dannatamente stupidi

Kahneman ci insegna che il nostro cervello è praticamente suddiviso in due: la parte più antica, il nostro retaggio animale, gestisce il nostro istinto e le nostre emozioni, ed è sempre la prima a parlare. Solo a posteriori entra in gioco la nostra parte più analitica e razionale: la corteccia cerebrale. Sembra poco, ma è una rivoluzione copernicana: non siamo esseri razionali prima ed emozionali poi, ma il contrario.

Una specie pienamente razionale, con un intuito statistico-matematico più sviluppato del nostro, si preoccuperebbe istantaneamente nel vedere un grafico con una curva esponenziale: sia che fossero emissioni di gas serra, o il numero di contagi in una pandemia. Vedrebbe in quel grafico un possibile futuro, lo sentirebbe nel suo corpo così come noi sentiamo fisicamente la paura, che ci fa battere il cuore, sudare freddo, respirare velocemente. Capirebbe che se non si agisce subito e in maniera drastica le conseguenze potrebbero essere catastrofiche. L’essere umano, purtroppo, non ne è capace: è sì razionale, ma è anche un tremendo coacervo di desideri, sofferenze, appetiti, emozioni. Questo ci rende la specie simpatica, imprevedibile, divertente e meravigliosa che siamo. Ma ci rende anche dannatamente stupidi.

Se esiste una soluzione alla crisi climatica, non può che trovarsi qui, nel superamento collettivo dei nostri limiti e nell’esercizio della nostra intelligenza più saggia.

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