È vero, raccontare quel che potrebbe succedere tra più di 400 anni sembra perdere del tempo. Ma non è così: 400 anni in termini geologici sono un’inezia e quel che si avrà come esito finale tra quattro secoli potrebbe avere serie conseguenze per l’uomo già tra 50 o 100 anni.

Stando a un recente studio sui cambiamenti climatici, anche ipotizzando scenari non catastrofici, sembra che due terzi della tundra siberiana – l’ambiente caratterizzato da copertura di erbe, muschi, arbusti e licheni a nord del pianeta – potrebbe svanire quasi del tutto. E mentre la copertura del permafrost della tundra si fonde, il fenomeno potrebbe rilasciare nell’atmosfera grandi quantità di gas serra che nel tempo si sono immagazzinati al suo interno, accelerando potenzialmente il riscaldamento in tutto il pianeta.

«È stato sorprendente per noi vedere nei nostri modelli quanto velocemente la tundra sarà trasformata in foresta, ma la perdita della tundra non sarà solo un duro colpo per la biodiversità e la cultura umana, potrebbe anche peggiorare il riscaldamento dell’Artico», spiega l’ecologo e modellatore forestale Stefan Kruse dell’Helmholtz Center for Polar and Marine Research dell’Alfred Wegener Institute di Bremerhaven, in Germania.

Il riscaldamento a nord del pianeta è progredito molto rapidamente negli ultimi decenni, a una velocità circa il doppio rispetto al riscaldamento nel resto del globo. Secondo il National Snow and Ice Data Center, tra il 1960 e il 2020, le temperature dell’aria sono aumentate di quasi quattro gradi celsius in tutta la regione artica, quando nel resto del pianeta la crescita è stata di circa 1,1 gradi centigradi. Il riscaldamento ha ridotto la copertura del ghiaccio marino e sta colpendo anche la terraferma della regione artica.

Una di queste ricadute è la marcia verso nord delle foreste di larici siberiani. «Non è ancora noto quanto velocemente queste foreste sostituiranno l’ecosistema erboso e arbustivo della tundra, ma avverranno in tempi relativamente rapidi», ha detto Kruse. L’incertezza è data dal fatto che in alcune aree “il limite del bosco” è avanzato verso nord molto velocemente, in altre è rimasto statico, in altre ancora, si è persino ritirato.

Kruse e il suo collega Ulrike Herzschuh hanno creato un nuovo modello computerizzato che ha lavorato sull’intera distesa di tundra, con una superficie di circa 11 milioni di chilometri quadrati. Il modello tiene conto dei cicli di vita dei singoli alberi: da quanto possono disperdere i loro semi, a quanto riescono a crescere di fronte alla concorrenza di altri alberi, fino ai tassi di crescita basati su temperatura, precipitazioni e profondità del disgelo estivo del permafrost che si verifica nelle regioni della tundra.

I ricercatori hanno scoperto che una volta che gli alberi iniziano a marciare verso nord in risposta al riscaldamento, lo fanno rapidamente e non è probabile che si ritirino di nuovo se le temperature calano nel tempo. In uno scenario in cui le emissioni di carbonio si riducono a zero entro il 2100 e l’aumento della temperatura globale rimane al di sotto di 2 gradi centigradi, la situazione si evolverebbe in modo tale che solo il 32,7 per cento della tundra odierna rimarrebbe dove si trova oggi. Questa frazione si ritroverebbe suddivisa in due aree: una a Chukotka nell’estremo oriente e una sulla penisola di Taymyr nell’estremo nord. Ma anche questo scenario, quello meno desolante, sarebbe impossibile da ottenere senza un’azione molto rapida. In uno scenario intermedio in cui le emissioni di carbonio non inizieranno a diminuire fino al 2050 e saranno dimezzate entro il 2100, nel 2500 i larici coprirebbero tutta la tundra attuale tranne il 5,7 per cento.

Kruse e Herzschuh hanno simulato il raffreddamento delle temperature, a seguito della trasformazione della tundra in foresta, e hanno scoperto che il “limite del bosco” non si sarebbe ritirato così rapidamente come era avanzato. «Una volta stabilitisi, gli alberi maturi possono resistere molto bene a variazioni di temperatura», ha detto Kruse.

Lo studio non ha verificato cosa potrebbe accadere agli abitanti animali della tundra, come le renne ad esempio, ma dividere le popolazioni in due regioni è in genere dannoso per la sopravvivenza delle specie. È probabile che l’impatto sarà avvertito pesantemente anche dagli esseri umani. Culture indigene come il popolo Nenets della Siberia nordoccidentale allevano e cacciano le renne. Se la tundra «venisse persa», dice Kruse, «sarebbe una grave perdita per l’umanità».

La storia dell’asteroide Ryugu

Lo scorso 6 dicembre 2020 una piccola capsula della missione Hayabusa2 della Japan Aerospace Exploration Agency (Jaxa) riportò a terra 5,4 grammi di campioni primitivi incontaminati raccolti nel 2019 in due punti diversi dell’asteroide Ryugu. Un’analisi completa di 16 campioni – i cui risultati sono stati pubblicati su Proceedings of the Japan Academy – ha rivelato molte caratteristiche sui processi che hanno operato prima, durante e dopo la formazione del sistema solare, e su alcuni che ancora attualmente modellano la superficie dell’asteroide.

Lo studio sugli isotopi – atomi con stesso numero di protoni, ma diverso numero di neutroni – dei minerali hanno permesso di capire che Ryugu contiene il materiale della nubulosa pre-solare più primitiva, ossia dell’antico disco di gas e polvere al cui centro si sarebbe formato il Sole e attorno i pianeti. Quel che è estremamente interessante, è il fatto che alcuni materiali organici potrebbero essere stati ereditati da ciò che vi era prima della formazione del sistema solare.

Tra i materiali organici identificati ci sono gli aminoacidi, che sono i mattoni delle proteine ​​presenti in tutti gli esseri viventi sulla Terra. La scoperta di amminoacidi ​​in campioni di asteroidi incontaminati indica che oggetti come Ryugu potrebbero aver seminato sulla Terra, e su altri pianeti, le materie prime necessarie per l’origine della vita.

Gli asteroidi come Ryugu, definiti di tipo C, ossia carboniosi, sono incredibilmente difficili da studiare dalla Terra, perché sono molto scuri e i dati che si possono raccogliere offrono pochissime informazioni sulla loro composizione. Per questo motivo la Jaxa ha pensato di inviare una sonda su Ryugu e raccogliere dei campioni. La riuscita della missione ha rappresentato dunque un passo molto importante per migliorare la nostra comprensione degli asteroidi di tipo C. L’analisi geochimica completa è stata avviata nel giugno 2021, con l’arrivo dei campioni ​​all’Institute for Planetary Materials dell’Università di Okayama, Giappone.

Inizialmente sono state eseguite una serie di analisi esterne dei campioni utilizzando un microtomo dotato di un coltello diamantato – uno strumento in grado di eseguire sezioni molto sottili di rocce – e poi si è passati allo studio del loro interno: sono state portate alla luce trame indicative di congelamento-scongelamento e una massa a grana fine di diversi minerali, con alcuni componenti a grana più grossa dispersi in modo eterogeneo.

La maggior parte dei minerali erano silicati idrati chiamati fillosilicati (fanno parte delle argille), che devono essersi formati attraverso reazioni chimiche che coinvolgono minerali silicati non idrati e acqua liquida. L’analisi – attraverso lo studio del manganese, del cromo e della dolomite – ha permesso di stabilire che l’alterazione acquosa ha raggiunto il picco prima di 2,6 milioni di anni dopo la formazione del sistema solare. Ciò significa che i materiali di Ryugu hanno sperimentato la presenza di acqua liquida molto presto nella storia del sistema solare e il calore che ha fuso il ghiaccio sarebbe stato fornito da elementi radioattivi che sopravvissero solo per un periodo di tempo relativamente breve, non più di 5 milioni di anni.

Dopo che la maggior parte degli elementi radioattivi si trasformò in elementi non radioattivi, Ryugu si raffreddò e si congelò di nuovo. Ryugu contiene anche isotopi di cromo, calcio e ossigeno che indicano che ha conservato la fonte più primitiva dei materiali dalla nebulosa protosolare.

Inoltre, i materiali organici di Ryugu registrano firme isotopiche primitive che suggeriscono la loro formazione all’interno del mezzo interstellare o della nebula protosolare più esterna. Va detto che per avere acqua liquida dal riscaldamento di un corpo roccioso-ghiacciato per decadimento radioattivo è necessario che il corpo abbia una diametro di almeno 10 chilometri.

Ryugu quindi deve essere stato originariamente una parte di un oggetto molto più grande, un planetesimale. Si pensa che i planetesimi ghiacciati siano la fonte delle comete, che possono essersi formate dalla loro frantumazione per collisione. Se il precursore planetesimale di Ryugu è stato colpito dopo che si è ricongelato, è possibile che la cometa che si formò abbia preservato molte delle trame originali e delle proprietà fisiche e chimiche del planetesimale. La cometa iniziò a spostarsi dal sistema solare esterno a quello interno attraverso un percorso dinamico causato dalle interazioni dei pianeti. Una volta nel sistema solare interno, Ryugu avrebbe poi subito una significativa sublimazione – il passaggio da solido a vapore – che, come conseguenza, avrebbe fatto aumentare la velocità di rotazione di Ryugu portandolo alla sua forma attuale a trottola.

La sublimazione potrebbe anche aver portato alla formazione di getti di vapore acqueo che avrebbero ridepositato materiale sotterraneo sulla superficie e lo avrebbero congelato nella posizione attuale. Dopo la completa sublimazione del ghiaccio dalla superficie di Ryugu, l’asteroide roccioso che si è venuto a formare risulta a bassa densità e altamente poroso. Mentre cessavano i processi legati all’acqua, è iniziata l’erosione spaziale.

La superficie di Ryugu è stata bombardata nel tempo da grandi quantità di particelle energetiche provenienti dal vento solare e dai raggi cosmici del Sole e delle stelle lontane. Le particelle hanno modificato i materiali sulla superficie di Ryugu, alterando anche la struttura della materia organica. Nonostante tutto ciò gli aminoacidi si sono preservati in un campione e la loro scoperta ​​è di grande importanza, perché Ryugu non è stato esposto alla biosfera terrestre, come i meteoriti, e come tale la loro presenza dimostra inequivocabilmente che almeno alcuni dei mattoni della vita sulla Terra potrebbero essersi formati in ambienti spaziali.

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