È ormai vicinissimo il giorno del lancio del più potente razzo che avrà mai volato e la cui navicella costruita per trasportare uomini raggiungerà una distanza dalla Terra come nessun’altra ha mai fatto e che entro un anno o poco più trasporterà realmente uomini e donne alla Luna. Ma andiamo con ordine.

La missione si chiama Artemis I e vedrà sulla rampa di lancio la navicella spaziale Orion – in grado di trasportare astronauti nello spazio profondo per lunghi periodi di tempo – e il razzo Sls o Space Launch System. Sarà la missione di prova senza equipaggio che fornirà i dati necessari per l’esplorazione umana dello spazio, considerando il previsto ritorno alla Luna e più in là l’esplorazione di Marte.

La navicella Orion raggiungerà una distanza dalla Terra di poco meno di 450mila chilometri. Decine di migliaia di chilometri oltre la Luna e la missione durerà circa 4-6 settimane. Orion rimarrà nello spazio più a lungo di quanto abbia mai fatto qualsiasi navicella per astronauti senza attraccare a una stazione spaziale.

Sls e Orion decolleranno dal Launch Complex 39B presso lo spazioporto del tutto rimodernato della Nasa al Kennedy Space Center in Florida. Il razzo Sls è progettato per missioni in grado di portare materiale e uomini oltre l’orbita terrestre e di trasportare equipaggi e merci sulla Luna e oltre. Durante il decollo e l’ascesa produrrà una spinta mai ottenuta da nessun altro razzo (per chi ha nozioni di fisica: 39,1 Meganewton) per portare in orbita circa 2.700 tonnellate.

Una volta raggiunta l’orbita terrestre, il veicolo spaziale dispiegherà i suoi pannelli solari e l’Icps, ossia l’Interim Cryogenic Propulsion Stage, ossia lo stadio superiore, darà a Orion la spinta necessaria per lasciare l’orbita terrestre e portare Orion sulla traiettoria lunare. Dopo meno di due ore l’Icps lascerà la navicella, non prima però di aver rilasciato nello spazio una serie di piccoli satelliti, noti come CubesSat – tra cui uno italiano –  i quali eseguiranno vari esperimenti e dimostrazioni tecnologiche.

Durante il viaggio alla Luna un modulo di servizio, fornito dall’Agenzia spaziale europea, fornirà alla navicella Orion l’alimentazione e la propulsione necessaria e in futuro l’ossigeno e l’acqua necessaria agli astronauti. Il viaggio richiederà diversi giorni, durante i quali gli ingegneri della Nasa terranno sotto controllo i sistemi del veicolo spaziale e, se necessario, correggeranno la traiettoria.

Una volta giunta alla Luna Orion sorvolerà il nostro satellite a circa 100 chilometri dalla superficie, quindi, utilizzando la forza gravitazionale della Luna si spingerà su una traiettoria retrograda (ossia ruoterà in senso opposto rispetto alla direzione con cui la Luna viaggia attorno alla Terra) fino a 70mila chilometri dal satellite.

A quel punto vi rimarrà per circa sei giorni per raccogliere dati e consentire ai controllori della missione di valutare le prestazioni del veicolo spaziale. Ritornerà poi a circa 100 chilometri dalla superficie lunare dove, grazie a un’accensione del motore del modulo di servizio lascerà, l’orbita lunare per dirigersi verso la Terra. La raggiungerà a una velocità di 11 chilometri al secondo (poco meno di 40mila chilometri all’ora) per attraversare l’atmosfera dove le temperatura al di sotto di Orion raggiungerà i 2.760 gradi Celsius.

E così dopo aver percorso poco più di 2 milioni di chilometri la missione si concluderà con l’ammaraggio di Orion al largo della costa di Naja, in California. Se tutto andrà per il meglio nel 2023 dovrebbe aversi il primo viaggio umano che pur con traiettoria diversa raggiungerà la Luna senza che nessuna astronauta scenda su di essa. Solo nel 2025 rivedremo l’impronta umana sulla Luna.

Gli uragani 

I cicloni tropicali, chiamati anche uragani, sono fenomeni molto complessi, che prendono forma solo in condizioni atmosferiche e oceaniche specifiche. Alcune ricerche suggerivano che, con il riscaldamento del clima, le nuove condizioni che si erano venute a creare stavano rendendo i cicloni tropicali meno frequenti. Va comunque sottolineato che la mancanza di dati precisi sui cicloni a lungo termine rendeva difficile quantificare tale tendenza.

Ora, un nuovo studio pubblicato su Nature Climate Change, mira a colmare questa lacuna utilizzando dati di “rianalisi” che combinano osservazioni e simulazioni di modelli. I risultati mostrano che tra il 1850-1900 e il 1900-2000 vi è stata una diminuzione del 13 per cento dei cicloni tropicali in tutto il mondo, con periodi la cui discesa è stata del 23 per cento. 

Più specificamente si è rilevato un calo di circa 100 cicloni tropicali all’anno rispetto all’epoca preindustriale per poi ridursi a circa meno 80 nel 2012. Lo studio non esamina i cambiamenti nell’intensità o dei danni dei cicloni, ma solo il loro numero. Questi risultati sono un paradosso rispetto a quanto ci si aspettava, ossia che con l’aumento della temperatura del pianeta gli uragani sarebbero aumentati.

«Il riscaldamento globale ha tra le tante conseguenze l’indebolimento di due principali circolazioni atmosferiche globali – la circolazione Walker e la Hadley, i cui effetti a catena creano “condizioni più ostili” per la formazione dei cicloni», suggeriscono gli autori.

La circolazione di Hadley è costituita da due “celle”, una in ciascun emisfero, che fanno circolare l’aria tra l’equatore e le medie latitudini. All’equatore, l’aria calda dalla superficie terrestre sale a quote più elevate e scorre verso le medie latitudini. L’aria si raffredda e sprofonda alle medie latitudini, prima di tornare all’equatore per chiudere l’anello.

Anche la circolazione Walker è una “cella” d'aria, ma scorre sull’oceano Pacifico ed è fortemente legata all’oscillazione di El Niño. Con il riscaldamento del clima, le circolazioni di Walker e Hadley si stanno indebolendo, riducendo la miscelazione dell’aria a diverse altitudini e l’umidità nell'atmosfera. «Questo sta creando condizioni “meno favorevoli” per la formazione di cicloni tropicali», si legge nella pubblicazione.

Mentre la frequenza dei cicloni è diminuita nel periodo 1900-2012 in sei delle sette regioni esaminate dallo studio, i ricercatori hanno riscontrato un leggero aumento nel nord Atlantico. Suggeriscono che ciò sia dovuto a una combinazione di variabilità naturale e una diminuzione dell’inquinamento atmosferico che permette un maggior riscaldamento dei mari. «La diminuzione della frequenza dei cicloni tropicali è “una buona notizia”», ​​ha spiegato l’autore Savin Chand. «Tuttavia – aggiunge – non è tutto oro quel che luccica, in quanto si è avuto un cambiamento nella posizione dei cicloni, che ha portato molte persone a ritrovarsi a “rischio-cicloni” quando prima non lo erano. I cicloni tropicali sono tra i rischi naturali più pericolosi sulla Terra». Le tempeste in rapida rotazione si formano su calde acque tropicali e possono portare velocità del vento sostenute di oltre 160 chilometri all’ora. Le comunità vicino alle coste sono particolarmente vulnerabili agli impatti dei cicloni tropicali, con mareggiate e piogge intense che possono portare a gravi inondazioni.

Gli autori hanno utilizzato i dati di rianalisi del 20° secolo, prodotto dalla National Oceanic and Atmospheric Administration, per ricostruire il numero dei cicloni tropicali nel periodo 1850-2012. 

Mortalità di massa

Un gruppo internazionale di ricercatori guidato dall’Institut de Ciències del Mar ha dimostrato che, tra il 2015 e il 2019, il Mediterraneo ha subito una serie di ondate di calore che ha colpito tutte le regioni del bacino, provocando una ricorrente mortalità di massa per tutto il periodo analizzato. I dettagli sono riportati in uno studio pubblicato sulla rivista Global Change Biology. Secondo il lavoro, popolazioni di circa 50 specie (tra cui coralli, spugne e macroalghe) sono state colpite da questi eventi lungo migliaia di chilometri di coste mediterranee, dal mare di Alboran alle coste del vicino Oriente. Alcune delle specie più colpite sono fondamentali per mantenere integra la biodiversità dei principali habitat costieri. Tra queste vi sono le praterie di Posidonia oceanica e i coralli, due degli habitat più emblematici del Mediterraneo.

Si tratta del primo studio in grado di valutare gli effetti della mortalità di massa su scala mediterranea in cinque anni consecutivi. «Purtroppo, i risultati del lavoro mostrano che il mar Mediterraneo sta subendo un’accelerazione degli impatti ecologici associati ai cambiamenti climatici che risultano una minaccia senza precedenti per la salute e il funzionamento dei suoi ecosistemi», si rammaricano Cristina Linares e Bernat Hereu, della Facoltà di Biologia e Biodiversity Research Institute dell’Ub. La crisi climatica sta colpendo gravemente gli ecosistemi marini di tutto il mondo e il Mediterraneo non fa eccezione. 

«Gli eventi di mortalità di massa nel Mediterraneo equivalgono agli eventi di sbiancamento osservati anche nella Grande Barriera Corallina, suggerendo che questi episodi sono già la norma», sottolinea il professore dell’Ua Alfonso Ramos. Per tutti questi motivi, gli autori sollecitano a rafforzare il coordinamento e la cooperazione a livello regionale, nazionale e internazionale per riuscire a raggiungere decisioni gestionali più efficaci per far fronte all'emergenza climatica in corso.

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