Alan Kurdi aveva tre anni quando il suo corpo senza vita è stato ritrovato sulla spiaggia di Bodrum, in Turchia. La fotografia del bambino curdo-siriano con i pantaloni blu, la maglietta rossa e il volto nella sabbia ha fatto il giro del mondo, suscitando indignazione dell’opinione pubblica per le crudeli conseguenze delle politiche migratorie dell’Unione europea. Era il 2 settembre 2015 e, con il fratello e i genitori, stava cercando di raggiungere l’isola greca di Kos. 

Nei mesi successivi, le mosse dei governi europei sembravano segnare un cambio di passo: la Germania della cancelliera Angela Merkel aprì le porte a un milione di profughi. «Wir schaffen das», aveva detto, ce la possiamo fare. David Cameron aveva accettato di accogliere nel Regno Unito 4mila rifugiati. Per poi arrivare a ideare un sistema di ricollocamento dei rifugiati tra i paesi europei non frontalieri, che dopo poco però fu rivisto.

Dieci anni dopo, il numero di persone morte e scomparse in mare è aumentato drammaticamente, e l’Unione è sempre più una fortezza che respinge, esternalizza e reclude. Le frontiere sono sempre più lontane e impenetrabili, il lavoro delle organizzazioni non governative attive nel soccorso in mare sempre più ostacolato e l’asilo un diritto che via via si trasforma in una scatola vuota. E il Mediterraneo è rimasto senza testimoni, se non fosse per le imbarcazioni delle ong che, nonostante gli innumerevoli ostacoli, cercano di riempire quel vuoto lasciato dai governi. 

Secondo le stime più recenti dell’Unicef, negli ultimi dieci anni sono circa 3.500 le bambine, i bambini e gli adolescenti morti cercando di attraversare la rotta del Mediterraneo centrale. «È come se, per un decennio, ogni giorno un bambino avesse perso la vita», scrive l’agenzia Onu. In totale, in base ai dati delle Nazioni Unite, sono almeno 20.803 le persone morte o scomparse lungo la stessa rotta. Una stima senza dubbio al ribasso perché «molti naufragi lungo questa pericolosa rotta migratoria dal Nord Africa non lasciano sopravvissuti o non vengono registrati, rendendo il numero reale di morti o dispersi praticamente impossibile da verificare, e probabilmente molto più alto», scrive l’Unicef.

La storia di Alan Kurdi

Se però si considerano anche le altre rotte migratorie che portano verso l’Europa, quelle del Mediterraneo occidentale e orientale (Alan Kurdi e la sua famiglia stavano percorrendo quest’ultima), dal 2015 l’Organizzazione mondiale per le migrazioni stima almeno 29.315 persone morte o scomparse in mare. Tra loro, 1.374 erano minori. Almeno 279 solo nel 2015. 

L’Unicef ricorda inoltre che circa sette bambini su dieci affrontano il viaggio senza un genitore o un tutore legale. Non era però il caso di Alan Kurdi, che stava cercando di raggiungere l’isola greca di Kos con la madre e il fratello, anche loro annegati nel naufragio, e il padre, l’unico sopravvissuto. Originari di Kobane, fuggivano dalla Siria, così come migliaia di altri cittadini siriani e iracheni quell’anno. Avevano chiesto asilo in Canada, dove vivevano alcuni familiari, ricevendo però un rigetto. Per questo avevano provato a intraprendere la rotta del Mediterraneo orientale, ma la barca sovraccarica con 17 passeggeri, diretta verso l’Europa, si è capovolta e i corpi senza vita sono stati trascinati sulla spiaggia turca di Bodrum.    

Criminalizzazione e politiche Ue

Dagli anni della cosiddetta crisi dei rifugiati a oggi, però, le immagini e le notizie dei naufragi, come quello di Cutro del 2023, dove hanno perso la vita almeno 94 persone, non hanno portato a introdurre canali di ingresso legali o missioni di salvataggio europee capaci di pattugliare il Mediterraneo e impedire ulteriori vittime. Al contrario, la missione Mare Nostrum è stata sostituita e via via l’intervento in mare da parte dell’Ue si è ridotto al mero controllo delle frontiere. Una scelta politica resa evidente dal drastico aumento dei fondi destinati a Frontex, l’agenzia europea per il controllo delle frontiere.

Se le ong nel 2015 sono salpate in mare per affiancarsi alle istituzioni nelle operazioni di soccorso, le loro navi umanitarie sono via via rimaste le uniche a testimoniare il vuoto delle politiche migratorie. Due anni dopo, però, è iniziata un’operazione di discredito e criminalizzazione – soprattutto da parte della politica – che ha portato a un progressivo impedimento delle operazioni di soccorso in mare, diventate sempre più complicate e più costose a colpi di decreti, sanzioni amministrative e strategie mirate, come l’assegnazione di porti lontani

L’Unione e i suoi stati membri hanno così ridotto al minimo i testimoni nelle acque del Mediterraneo, mentre hanno reso l’Europa una fortezza chiusa in sé stessa con norme securitarie, accordi con paesi terzi a qualsiasi costo – lo dimostra il memorandum con la Libia e il finanziamento della cosiddetta guardia costiera libica – e respingimenti illegali alle frontiere. Un percorso che ha posto come prioritaria la dimensione della sicurezza, a scapito della tutela dei diritti, e portato all’approvazione nel 2024 del Patto Ue per la migrazione e l’asilo, un pacchetto di riforme che comprime al massimo il diritto di asilo. Così si è aperta la strada all’assuefazione all’orrore di ciò che succede in Libia così come nel Mediterraneo

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